BACH L’arte della fuga pianoforte András Schiff
Milano, Sala Verdi del Conservatorio, 3 dicembre 2024
Per Sir András Schiff e L’arte della fuga la Sala Verdi del Conservatorio milanese è quasi piena, cosa rara in questi tempi grami per la musica, cosa però non sorprendente, in primo luogo perché Schiff non soltanto è un grande pianista, amatissimo dai frequentatori della Società del Quartetto, nella cui stagione era inserito il recital, ma è anche un pianista entrato nella categoria dei miti – come lo era Maurizio Pollini, per intenderci, e come lo sono Grigory Sokolov e Martha Argerich; in secondo luogo perché in Italia la musica di Johann Sebastian Bach gode da alcuni decenni di un credito illimitato presso il pubblico, anche quando è musica intellettuale e complessa come quella dell’Arte della fuga.
András Schiff cammina lentamente verso il pianoforte aiutandosi con un bastone, suona il primo dei contrappunti del capolavoro bachiano e quindi si fa dare un microfono per ricordare di spegnere i cellulari e sottolineare che dopo l’ultimo contrappunto, lasciato interrotto da Bach sul letto di morte, secondo la testimonianza del figlio Carl Philipp Emanuel, può solo seguire il silenzio. Niente applausi, quindi, almeno niente applausi subito, e nessuna intenzione da parte sua di completare l’opera incompiuta di un genio, che sarebbe una “colpa mortale”: l’esecuzione si fermerà esattamente sull’ultima nota scritta da Bach, nel momento il cui il compositore sta introducendo la propria firma musicale (Si bemolle, La, Do, Si naturale). Sembra voler officiare un rito sacro András Schiff, ma il suo approccio alla musica è rituale soltanto nella superficie levigata del suono e del fraseggio, nella compostezza della postura davanti alla tastiera, nel tocco lieve, nei minimi scarti dinamici, perché in realtà sotto questa superficie la musica di Bach con lui prende vita, illuminandosi di molteplici screziature timbriche in una dimensione di raffinata arte oratoria, in cui il contrappunto è tutto tranne che un’esibizione di perizia tecnica da parte del compositore e di perizia esecutiva da parte dell’interprete, anzi diventa il mezzo per un viaggio (non a caso al termine del breve discorso introduttivo Schiff ha augurato ai presenti in sala “buon viaggio” e non “buon ascolto”) nel cuore della musica, dalle profonde implicazione morali. Schiff del resto ha suonato con il voltapagine: non ha voluto mandare a memoria i quattordici contrappunti e i quattro canoni dell’Arte della fuga, come a sottolineare di volersi mettere al servizio della musica piuttosto che usare la musica per mettere in mostra il proprio ego di interprete.
Se il suono di Schiff in Bach è da sempre un suono smaterializzato, resta il suono di un pianoforte e non di un pianoforte che cerca di imitare un clavicembalo, è un suono smaterializzato nella sua scarsa profondità e nella sua essenzialità timbrica e non perché privo di inflessioni espressive, anzi nel perfetto bilanciamento timbrico e dinamico delle singole note e delle frasi, ottenuto anche attraverso un uso molto accorto del pedale, si avverte il pulsare delle vita. Abbiamo ritrovato in questo concerto milanese la pulizia, la sobrietà, la luminosità, l’apollinea levigatezza del tocco e il supremo controllo che del Bach di Schiff e più in generale del suo pianismo sono da sempre le caratteristiche, in sala di registrazione come dal vivo, e la cosa fa poca differenza, perché la chiarezza e la pulizia erano quasi le stesse dei suoi CD. Abbiamo ritrovato anche lo stesso calore espressivo, un calore intimo e segreto fatto di piccoli gesti pianistici da cogliere con orecchio attento lungo un arco ininterrotto di quasi un’ora e mezza di musica, perché la dimensione espressiva con Schiff passa attraverso il sottrarre piuttosto che l’aggiungere, che siano uno slittamento lieve dal mezzo piano al piano, una particolare inflessione del tocco in corrispondenza di un cromatismo, un sottile alternarsi tra legato e mezzo staccato, e a tratti perfino – penso al Contrapunctus IX – una leggerezza ariosa e danzante, in cui mai si avverte la fatica dell’esecuzione e in cui tutto resta sempre perfettamente intellegibile dall’ascoltatore. Le singole voci del contrappunto sono restituite con un’evidenza quasi fotografica, ciascuna con il suo peso sonoro e il suo colore timbrico, e tutto arriva nitido all’ascoltatore senza che Schiff debba accentuare i passaggi brillanti né debba accelerare il tactus, che conserva sempre un respiro quieto e uniforme. Non ci sono, infatti, fughe in avanti nel pianismo di Schiff, quegli improvvisi scatti del movimento che erano tipici per esempio del Bach di Glenn Gould, non c’è la ricerca di sonorità sontuose e organistiche nemmeno dove, come nel Contrapunctus X, potrebbe esserci, piuttosto c’è un lavoro estenuante sui dettagli che anche in concerto si traduce in una pulizia esecutiva ed emotiva fuori dal comune. Nel Contrapunctus XIII Schiff viene affiancato a un secondo pianoforte dalla trentacinquenne tedesca di origine iraniana Schaghajegh Nosrati, e ne sortisce una lettura ancora più ricca di contrasti, sempre però nel segno della sobrietà espressiva, non solo perché Schaghajegh Nosrati è pianista dalla lunga frequentazione bachiana, ma anche perché con Schiff collabora da diversi anni e l’intesa stilistica ed emotiva tra i due è evidente.
Alla fine, dopo il lungo silenzio imposto da Schiff e dopo lunghi ma contenuti applausi, quasi a non voler turbare l’atmosfera della serata, arriva il bis, naturalmente bachiano, l’Aria dalle Variazioni Goldberg, suonata con arioso disincanto, senza scosse né mesti ripiegamenti lirici, tra la leggerezza del tocco e la scorrevolezza del fraseggio. Ancora una volta: la musica Bach non come icona da venerare, ma come corpo vivo.
Luca Segalla