Il dieci aprile scorso, in una Pierre Boulez Saal vuota, avvolta da un’atmosfera deserta e spettrale, priva dei soliti colpetti di tosse che accompagnano il concerto, il celebre pianista Daniel Barenboim (nostro personaggio di copertina nel numero di aprile) ha voluto rendere omaggio al duecentocinquantenario della nascita di Beethoven suonando le 33 Variazioni su un Valzer di Anton Diabelli op. 120.
Il concerto, voluto dalla Deutsche Grammophon, è destinato a entrare nella storia del concertismo non solo come evento musicale ma come momento di alta riflessione in un momento difficile che coinvolge il mondo intero.
Una meditazione attraverso il suono, il linguaggio universale della musica che, proprio perché universale, parla a tutti senza parlare nessuna lingua.
Le Variazioni di Beethoven erano nate da un’iniziativa del compositore ed editore, Anton Diabelli, che, nel 1819, coinvolse ben cinquanta compositori dell’impero asburgico affinché componessero delle variazioni a un suo valzer piuttosto semplice (cfr. sull’argomento l’articolo di Carlo Piccardi, sul numero ora in edicola di MUSICA). Beethoven non prese parte a questa iniziativa definendo quel valzer, così semplice, una “toppa del ciabattino”.
In verità non sappiamo cosa scoccò nella mente inquieta e proteiforme di quel Grande tale da fargli cambiare idea e da spingerlo a comporre trentatré variazioni su quel valzer. Fatto sta che quell’opera, scritta nel 1819 e pubblicata nel 1823, si pone non soltanto come la summa dell’arte della variazione ma anche come il suo superamento, spingendosi fino al limite delle capacità della tastiera. Arnold Schönberg definì l’op. 120 “il lavoro più avventuroso di Beethoven” per la sua struttura armonica.
Dunque non solo un omaggio a una civiltà passata, quella dei maestri della variazione, che va da Bach a Mozart passando per Händel, i cui echi è possibile sentire nell’op. 120, ma anche un superamento della stessa. Non a caso Beethoven preferisce il termine di Veränderungen a quello italianizzato di Variationen, significando il primo anche “trasformazione”. Trasformazione non solo del tema del valzer di Diabelli, ma della stessa struttura della variazione come genere musicale.
Ma non si esaurisce in questo l’opera di Beethoven; essa è un caleidoscopio di tutte le emozioni umane, dalla calma serena e sognante all’allegria briosa, fino alla più cupa inquietudine.
L’op. 120 è stata definita come la “summa dell’umanesimo beethoveniano”, una meditazione sull’umano che non appartiene soltanto alla civiltà in cui visse il compositore, ma alla civiltà in assoluto.
Questo aspetto cruciale lo coglie il pianista Barenboim, eliminando dall’opera ogni traccia di esibizionismo virtuosistico e di bravura per rendere manifesto il messaggio custodito in quell’opera così singolare, in una sala da concerto che rispecchia la solitudine cui siamo tutti costretti.
Barenboim ha lasciato parlare l’opera liberando la sua eloquenza, offrendo una meditazione sull’umano in un momento nel quale l’uomo ha dovuto rinunciare a una parte consistente della sua umanità e all’elemento che più lo caratterizza: la socialità.
In un mondo chiuso nelle proprie case, con le strade avvolte dal silenzio e le piazze ricolme di inquietante solitudine, l’opera di Beethoven travalica il suo tempo e non smette di parlarci, nel momento più difficile.
Gaetano Esposito