BERLIOZ Béatrice et Bénédict N. Ulivieri, Y. Dubruque, J. Behr, G. Robert-Tissot, B. Torre, C. Molinari, E.-M. Hubeaux, I. Thirion; Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice, direttore Donato Renzetti regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin costumi Agostino Cavalca
Genova, Teatro Carlo Felice, 30 ottobre 2022
Béatrice et Bénédict potrebbe contare sulla popolarità dell’autore, su una certa familiarità presso i melomani grazie a diverse autorevoli incisioni discografiche, e anche avvantaggiarsi dell’assenza di grosse difficoltà per l’allestimento (pensiamo invece a Les Troyens…). Eppure la circolazione dell’ultima opera di Hector Berlioz nei palcoscenici mondiali è davvero limitatissima: sembra incredibile che soltanto in questa occasione, a centosessanta anni esatti dalla creazione, si sia approdati al primo allestimento scenico nel nostro paese. Benissimo ha fatto dunque l’Opera Carlo Felice Genova (nuova denominazione del teatro, adottata da poche settimane) a cogliere l’occasione di una collaborazione con l’Opéra de Lyon e dare piena visibilità a questa vera rarità facendone lo spettacolo inaugurale della sua stagione lirica. Tanto più che di fatto si è trattato del vero debutto in scena dell’allestimento: a Lione infatti l’Opéra-comique in due atti era programmata alla fine del 2020, ma a causa della pandemia è stata soltanto trasmessa in streaming, senza la presenza del pubblico.
L’opera, accanto a qualche numero un po’ convenzionale, contiene pagine di alto livello musicale, dalla brillante Ouverture al Duetto tra Héro e Ursule (che potrebbe costituire benissimo un’appendice delle Nuits d’été), costruendo un ordito di una leggerezza e trasparenza che appare in curioso contrasto con il periodo assai problematico che Berlioz stava vivendo all’epoca della creazione. Il problema dell’opera, come è noto, risiede semmai nella sua tenuta drammaturgica: da Molto rumore per nulla infatti estrae le controverse dinamiche sentimentali tra Beatrice e Benedetto ma eliminando del tutto gli altri temi e le sfumature tragiche (l’amore tra Ero e Claudio, ad esempio, diviene qui un vero idillio), e la trama si trascina di conseguenza verso un esito che appare subito scontato: non si dice forse da sempre «chi disprezza compra»? In breve: a Messina è di ritorno l’armata siciliana guidata da Don Pedro, vincitrice dei mori: tra i giovani ufficiali che si sono messi in luce in battaglia vi sono Claudio, che ritrova la promessa Ero, figlia del Governatore, e Benedetto, che subito riprende invece i consueti battibecchi con Beatrice, cugina di Ero. Dopo l’ennesima schermaglia tra i due, stuzzicato dalla sbandierata avversione di Benedetto per il matrimonio, Don Pedro decide di ordire una congiura generale per far sbocciare l’amore tra i contendenti e trasformare in doppie nozze la cerimonia tra Claudio ed Ero, prevista per la serata: il che riesce senza ostacoli, con le sole divagazioni rappresentate dagli interventi dello scombinato maestro di cappella Somarone (personaggio inventato da Berlioz). La scarsa presa della trama non è aiutata dai lunghi dialoghi recitati che, pur caratteristici del genere dell’Opéra-comique, oggi sarebbero difficilmente proponibili senza tagli significativi; ma gli sfoltimenti vanno attentamente ragionati, onde non diminuire ulteriormente interesse e credibilità della vicenda.
Tagli e spostamenti di dialoghi sono ovviamente adottati anche nella messinscena pensata da Damiano Michieletto, che anzi arriva a far terminare il primo atto con il Rondo di Bénédict: finale un po’ brusco e poco efficace, che gli consente però di aprire il secondo col sublime Duetto tra Héro e Ursule, ambientato con notevole colpo d’occhio in una lussureggiante foresta tropicale. Il contrasto tra natura e convenzioni è infatti il centro della drammaturgia parallela imposta dal regista all’opera, che assegna a Somarone un ruolo centrale, «una sorta di Don Alfonso di Così fan tutte» che cerca di gestire un po’ tutti in scena, armeggiando con un vecchio registratore a nastro. Se il trasferimento della vicenda in qualcosa che assomiglia a una sala d’incisione sembra soprattutto un escamotage per consentire ai cantanti di recitare i dialoghi giovandosi dei microfoni, l’idea forte dell’allestimento è quella che il rapporto amoroso tra Ero e un azzimato Claudio sia assai meno autentico di quello, aperto e anticonvenzionale, tra i due protagonisti; che sanno infatti entrare in sintonia con la Natura, rappresentata dalla foresta di cui sopra, da uno scimpanzé con cui Bénédict subito fraternizza, da due grandi farfalle che i nostri eroi alla fine liberano e financo da Adamo ed Eva, i quali, mandato letteralmente all’aria il loro habitat, vengono a forza vestiti da sposi ed esposti in gabbie di vetro, comprensibilmente intristiti. Lo spettacolo è dunque ricco di contesti e apparizioni da decifrare, di movimenti da seguire ed eseguire, con qualche fatica e qualche inevitabile inconveniente (tra letti che riluttano a farsi segare e lettere luminose che cadono nel bel mezzo di un’aria); nonostante il gran lavoro che ha impegnato regista e interpreti, penso a dire il vero che l’opera si gioverebbe maggiormente di una messinscena in grado di accordarsi pienamente alla levità della musica e che sappia trasformare in vantaggio l’episodicità della sua drammaturgia.
Donato Renzetti, al contrario, ha restituito alla partitura tutta la sua leggerezza, avvolgendoci nell’incanto di momenti come il Duo più volte citato o il Terzetto «Je vais d’un cœur aimant», e spargendo una vivacità sorridente sugli episodi di commedia, giovandosi di un’orchestra elastica e di un coro apparso in buona forma. Così come del tutto all’altezza è risultato un cast che ha saputo infondere ai protagonisti credibilità (nei limiti del possibile) e freschezza giovanile. Musicalmente il ruolo-chiave dell’opera è quello di Héro, che partecipa a tutti i momenti più belli: qui era impersonato da Benedetta Torre, che proprio al Carlo Felice avevamo segnalato ben sette anni fa in una acerba, ma promettente Amelia dal Simon Boccanegra. Il giovane soprano genovese ha proposto un personaggio delizioso sotto tutti gli aspetti, regalando voce cremosa e bella linea a cantabili come «Je vais le voir» (che echeggia irresistibilmente l’händeliana «Ombra mai fu») o «Nuit paisible et sereine»; si è disimpegnata bene anche nell’Allegro con fuoco dell’Aria del primo atto, pur sorvolando un po’ sui trilli. Centri corposi e un canto espressivo (anche nei singolari cromatismi dell’Aria «Il m’en souvient») hanno scaldato la vivace Béatrice di Cecilia Molinari, mentre Eve-Maud Hubeaux (Ursule) non soltanto ha creato impasti gradevolissimi con la Torre, ma si è segnalata nel Terzetto per colore brunito e accento insinuante. Se Nicola Ulivieri va considerato addirittura un lusso per la parte di Don Pedro, Julian Behr possiede pienamente i mezzi per il tipico ruolo tenorile da Opéra-comique rappresentato da Bénédict, ma l’impostazione un po’ arretrata non gli consente di far correre sufficientemente la voce in uno spazio ampio come quello del Carlo Felice, costringendolo a una gamma dinamica limitata; ha comunque tratteggiato in scena un personaggio efficace, risoluto ma anche aperto al dubbio. Funzionali il Claudio di Yoann Dubruque, il Somarone di Ivan Thirion e il governatore Léonato di Gérald Robert-Tissot (ruolo recitato).
Roberto Brusotti