BRUCKNER Sinfonia n. 8 in do minore Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Semyon Bychkov
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia 23 maggio 2024
Con un bel logo nuovo di zecca sui programmi di sala e con una tempestiva premessa concertistica già in gennaio (Alexander Soddy sul podio per la Quinta Sinfonia) si è aperto al Parco della Musica di Roma, per la corrente Stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, l’atteso bicentenario della nascita di Anton Bruckner. Ed è ora proseguito, facendo salire in cartellone il penultimo capolavoro del maestro di Ansfelden, l’Ottava Sinfonia, con un direttore di fama internazionale, a Roma già più volte presente, come Semyon Bychkov. Non si è trattato di un concerto, ma di un evento forse difficile a dimenticarsi.
L’Ottava Sinfonia è ormai al vertice della singolare parabola compositiva di Bruckner: chiusa la cosiddetta “tetralogia in maggiore” (Quarta, Quinta Sesta e Settima), è in realtà già da quest’ultima ch’egli ha cominciato i suoi commiati dal mondo. Nella Settima, con il celebre Adagio, aveva dato il suo più commosso addio a Richard Wagner. Nell’Ottava e nella Nona è lui stesso a salutare una terra ove – come diceva Wilhelm Furtwängler – “appare come un estraneo; e soltanto perché egli tiene questo mondo in ben scarsa considerazione, mentre nell’altro si sente tanto più a suo agio”. Tal “passaggio” nelle due monumentali partiture ora citate non avviene senza “itinerari della mente in Dio” complessi e drammatici: senza che la presenza del Numinoso in lui non generi agonia ed estasi, biblici combattimenti con Michele e con Lucifero, “morte e trasfigurazione”. Il primo movimento dell’Ottava, in particolare sembra realmente spalancare uno scenario di misteriosa imminenza, una sterminata valle di Giosafat ove lo Spirito dona nuovamente la vita ai corpi dormienti. Lo Scherzo (come poi quello della Nona, ma in fondo come già quello della Prima) è un’acme d’esaltazione ritmica, come sorto dai sobbalzi più profondi della terra: e ben se ne ricorderà Leoš Janáček per Sinfonietta e Taras Bul’ba. Poi l’Adagio, Feierlich langsam, doch nicht schleppend. Non sappiamo chi abbia mormorato all’orecchio di Bruckner quel tema che ne guida l’inizio: “non odo suoni che dici umani”, n’avrebbe scritto d’Annunzio. Vero è che per l’intero movimento si tratta d’“una sconvolgente esperienza mistica”. Acclarata da quella sua fisionomia peculiare affatto rispetto ad altri simili movimenti bruckneriani: tutto vi è come depurato da ogni sensualità terrena, sospeso, immoto nel tempo e nello spazio (quelle arpe non dicono di misteriose trascendenze?), in un’implacabile progressione, fino a culminare in una sorta d’esplosione liberatrice, marcata dal doppio colpo di piatti e triangolo: dopo la quale v’è spazio solo per scendere alla lunga “coda” in diminuendo. Il Finale: Feierlich, nicht schnell era ritenuto dallo stesso autore come “il movimento più significativo della mia vita”, “destinato soltanto a tempi futuri e ad una cerchia di amici e conoscitori.” E certo quella sua estrema propaggine, (scriveva Daniele Spini) “in cui i temi dei quattro movimenti risuonano insieme, sovrapposti l’uno sull’altro come nel finale del Crepuscolo degli dei: [è] un incastro sonoro quasi violento, chiuso […] da un terrificante precipitare dalla dominante alla tonica di tutta l’orchestra all’unisono.” I “tempi futuri”, molto più di quanto non si creda e non si scriva, ne terranno ben conto.
Dirigere ed eseguire un capolavoro di tale sovrana grandezza, è compito al quale abbisognano risorse tecniche e mentali non comuni. Bene ha fatto l’Accademia a schierare un’orchestra che dir armata per un possente cimento è dir poco, visto che contava solo negli archi settanta professori. E benissimo l’ha guidata Semyon Bychkov: il cui gesto e la cui bacchetta erano a tanta compagine un riferimento irrefutabile, un ago luminoso ove era impossibile perdere l’orientamento. Dopo un inizio appena freddo (era la prima delle tre sere e qualche piccola imprecisione è stata più che fugace), lo sconfinato mondo di Bruckner s’è aperto con un’impressionante qualità di suono, con una continuità di percussione drammatica, con un’intuizione capillare anche dei sensi più profondamente celati nel magma delle cogitazioni filosofiche e delle illuminazioni celestiali del genio austriaco. In quella sua debordante, innocente e sapiente umanità, alla quale il nostro tempo dovrebbe con assai più attenzione ed emulazione guardare. E che Bychkov ci ha consegnato come non udivamo da troppi anni. Parlar di successo e d’applausi è riduttivo.
Maurizio Modugno
Foto: Musacchio, Pasqualini, Fucilla / MUSA