DEBUSSY Trois Nocturnes BUSONI Concerto per pianoforte, orchestra e coro maschile in do maggiore op. 39 pianoforte Vadym Kholodenko Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore sir Antonio Pappano
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 30 gennaio 2025
Grande attesa e grande calore di pubblico per il ritorno a Santa Cecilia di sir Antonio Pappano: che non ha omesso di soddisfare i suoi fans con l’immancabile fervorino didattico dal podio all’inizio del concerto e con un programma d’indubbia e (forse) attraente singolarità. E che non risiedeva tanto nella prima parte — benché Pappano che dirige Claude Debussy è un evento che in Accademia ha rarissimi precedenti — quanto nella proposta impegnativa assai, nella seconda parte, del grandioso concerto per pianoforte, coro e orchestra di Ferruccio Busoni.
Non diremmo, in tutta franchezza, che i Trois Nocturnes di sir Tony ci abbiano entusiasmati: un anglico grigiore pesava sui tre mirabili pannelli del Claude de France, soprattutto per una lentezza di tempi cui non faceva da supporto quella caleidoscopica magia di suoni e di nuances che, a non dir d’altri, un Prêtre restituiva con invincibile fascino. L’orchestra e le coriste, certo, impeccabili: ma senza troppa convinzione, di là e di qua del podio.
Quasi nessuno tra il numeroso pubblico presente aveva ascoltato (se non vent’anni fa con Fabio Luisi e Carlo Grante) l’op. 39 di Busoni. Si tratta senz’altro di un monstrum nella storia del concerto per piano e orchestra. Scritto fra il 1901 e il 1904, venne creato ai Berliner Philharmoniker il 10 novembre 1904, con lo stesso Busoni al pianoforte e la direzione di Karl Muck. L’anno dopo la partitura verrà eseguita al Concertgebouw di Amsterdam, stavolta diretta da Busoni e con al pianoforte il suo pupillo Egon Petri (a sua volta maestro di John Ogdon, che dell’op. 39 ha lasciato una celebre incisione). Il concerto, come quasi tutta la musica di Busoni, è fondamentalmente un blocco di genialità irrisolta. Cinque movimenti da eseguirsi senza soluzione di continuità, l’ultimo con l’ingresso di un coro maschile che canta un inno dal poema Aladdin di Adam Gottlob Oehlenschläger. Il pianoforte vi ha una scrittura iperbolica, ma fondamentalmente ripetitiva e schematica; e spesso non più che concertante con un’orchestra fragorosa e magniloquente. All’inizio (Prologo e introito) sembra profilarsi l’ombra severa di Brahms e dei suoi concerti per pianoforte, assieme a quella meno celebre, ma importante di Adolf von Henselt. Poi una “maniera” debitrice tanto di Berlioz che di Liszt dilaga, fino a sfiorare una sorta di grottesca parodia d’entrambi, con umori spesso sarcastici, talora sulfurei, sempre assai marcati e vistosamente sottolineati, in modi che rendono impossibile non pensare a Boito e ad una Scapigliatura sinfonica di pieno e tardivo gusto umbertino. Diremmo allora, per amor di brevità, che in tal sorta di Monumento al Milite Ignoto (o Altare della Patria che dir si voglia) messo in musica, ciò che è di stupefacente attrattiva sono alcune delle variazioni su canti e canzoni d’Italia, da “Fenesta ca lucive” alla “Bella Gigogin”, dai Bersaglieri ad una sfrenatissima Tarantella. Alla quale si deve forse il momento più valido di tutti i settanta minuti del concerto, quel Vivace “All’Italiana” (quarto movimento) che nel suo smisurato crescere assurge a toni orgiastici cui forse guarderà con interesse (e ben altra finezza) Ottorino Respighi.
In tal complessa vicenda musicale, Pappano è parso muoversi come a casa sua, dominando archi in quantità, armate d’ottoni, percussioni clamorose come un invitto condottiero. Aveva dalla sua un pianista eccezionale come l’ucraino Vadym Kholodenko, cui nulla di tal massacrante tour de force è parso precluso e che anzi ha dato tutto il possibile spicco ad una scrittura alla fin fine ingrata.
Applausi moderati per Debussy, ma fervidissimi per Busoni e soprattutto per il pianista.
Maurizio Modugno
Foto: Accademia di Santa Cecilia/MUSA