CARPI La porta divisoria D. Romeo, A.M. Ciulla, S. Van Seumeren, A. Salzano, D. Peroni, O. D’Urso, F. Tuccillo, G. Farina, C. Floris regia Giorgio Bongiovanni scene Andrea Stanisci costumi Clelia De Angelis luci Eva Bruno BARTÓK Il castello del Duca Barbablù A. Silvestrelli, I. De Paoli. M. Zacchigna scene e regia Henning Brockhaus costumi Giancarlo Colis coreografie Valentina Escobar Orchestra della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, direttore Marco Angius
Trieste, Teatro “G. Verdi”, 14 maggio 2024
E alla fine la produzione che partiva con minori attrattive (a chi frequenta solo i soliti noti) è risultata vincente. Degna di un gran finale di stagione. A conferma che i percorsi intelligenti, meno battuti o addirittura inesplorati, riservano a volte le sorprese migliori e premiano chi li ha tracciati. L’abbinamento proposto dal Verdi può dirsi quasi da manuale, perfetto nell’elemento che li incardina: la porta o meglio il buio al di là della porta, tema da coniugare ad libitum nell’arco del novecento ed oltre. Strehler, autore di quest’unico libretto, lo vedeva focalizzato sulla porta del povero Samsa delle Metamorfosi con tutte le tentazioni dell’Irrappresentabile, cui il teatrante non resiste. E con La porta divisoria Fiorenzo Carpi, il fido compositore del “Piccolo”, ne condivideva l’attrazione. Tuttavia l’impresa già programmata e attesa nel 1957 si sarebbe inceppata per motivazioni diversamente suggestive, nonostante la committenza di prestigio (la Scala di De Sabata) e lo slancio creativo iniziale. L’opera sarebbe rimasta una delle illustri “incompiute” e come tutte le incompiute avrebbe esercitato il proprio fascino, suscitando l’impegno di Enrico Girardi che nel 2022 l’ha rilanciata allo Sperimentale di Spoleto. Donde ora, a pieno organico e con il quadro finale affidato ad Alessandro Solbiati, l’edizione rappresentata con vivo successo a Trieste, città natale assai poco frequentata da Strehler e ancor meno da Fiorenzo Carpi, un grande della piccola forma e della musica “funzionale” alla scena. La memoria e la fortuna di Carpi non ritroveranno forse lena da questa isolata prova operistica ottimamente realizzata e resteranno legate a capolavori della forma breve di cui come sigla stilistica ricorderei almeno – tra i tanti titoli – “Quella cosa in Lombardia”, indimenticabile con le voci di Laura Betti e di Enzo Jannacci. Donde lo spiazzamento comprensibile dell’ascoltatore (come avverte lo stesso Giraldi) di fronte ad una musica che sembra figlia o sorella della scuola di Darmstadt e del quasi coetaneo Maderna, irta di atonali striature, di sonorità aguzze, sulle quali lo Sprechgesang muove i passi di un inquietante stupore. Il merito precipuo è nella affilata, analitica lucidezza della direzione di Marco Angius, nella prova mirabile dell’orchestra e di un palcoscenico scattante e bene assortito. Ai meriti di Angius si sommano quelli della messinscena di Giorgio Bongiovanni, esemplare nella misura diafana e nella articolata gestualità con il tratto grottesco dei tre pensionanti. Il problema evidente era quello di rovesciare l’ottica del racconto. Il protagonista (ovviamente fuori campo) sta dal versante del pubblico. Al di qua di quella porta, con Gregorio, il “repellente diverso” ci siamo noi spettatori di un interno famigliare borghese in cui ogni pietas è disseccata. E alla fine la “cosa” morta è gettata via come un rifiuto nella “normalità” del quotidiano. Difficile certo per Carpi e per l’esuberante Strehler uscire dalla ragna di Kafka nei termini di una pièce teatrale. Di qui l’incompiuto quadro finale che Solbiati ha risolto con una lucida elegia e con la suspense di una fascia sonora battente. Bellissima la nitidezza delle scene di Andrea Stanisci nelle luci vitreo-vaporose di Eva Bruno.
Tanto limpida e misurata è la prova teatrale di Strehler e Carpi quanto maestosa è la rutilante opera di Béla Bartók Il castello del Duca Barbablù che occupava la seconda parte della serata, esaltando il rigore formale del compositore magiaro e insieme la dismisura di un capolavoro tra i più impressionanti del novecento. In fondo anche il mistero di Barbablù – al di là di quelle porte proibite – e la volontà disvelatrice di Judith appartengono a uno dei grandi temi dell’arte: la ricerca dell’identità. Lo spettacolo di Trieste sforava nel vasto taglio sghembo di un fatiscente castello ideato dallo stesso Brockhaus (e da Giancarlo Colis) con sovrabbondante ricchezza visionaria nelle visioni coreutiche. Ad avvolgere la sensualità che la regia di Brockhaus porta in primo piano con i due protagonisti tesi in uno scontro che è anche amplesso disperato prima della notte. E mentre Angius estrae dal grandioso organico strumentale tensioni drammatiche e ricchezza di tinte e di incandescenze (ancora magnifica l’orchestra triestina), sulla scena Andrea Silvestrelli e Isabel De Paoli consumano mirabilmente il loro viaggio nel mistero: lui con una interpretazione imperiosa da umanizzato gigante nibelungico, lei con una radiosa e radiante bellezza vocale. Successo invero clamoroso.
Gianni Gori
Foto: F. Parenzan