DONIZETTI La fille du régiment G. Gianfaldoni, J. Osborn, S. Alberghini, M. Custer, G. Andrieux, L. Battagion, F. Vazzola, A. Escobar; Orchestra e Coro Teatro Regio Torino, direttore Evelino Pidò regia scene e costumi Barbe & Doucet
Torino, Teatro Regio, 23 maggio 2023
C’era una volta il sipario chiuso, l’opera iniziava così. Prima o poi dovremo raccontarlo ai nostri nipoti, spiegando il senso magico di quell’ascoltare la musica nell’oscurità, rito iniziatico verso il mistero e lo stupore del teatro. Far capire le ragioni della sua progressiva estinzione, senza nascondere che spesso ci manca. Così è stato in questo caso di fronte all’idea di André Barbe e Renaud Doucet di occupare l’intero spazio dell’ouverture con un video in bianco e nero, ben costruito fatta eccezione per la poca luminosità, in cui si vede un’anziana ospite di una casa di riposo che riceve con letizia la visita dei parenti e narra ai bambini i suoi lontani anni come infermiera durante la guerra. Non si fatica a capire che si tratta di Marie, circondata dagli oggetti del suo vissuto (ma a prestare volto e figura all’amabile signora è anche la quasi centenaria vera nonna di Doucet). Già Stefano Pagliantini su MUSICA on line del 19 ottobre 2022 (vedi qui) aveva analizzato compiutamente questa componente dello spettacolo, in occasione del debutto alla Fenice (è una coproduzione fra Venezia e Torino), ritenendo che un legame con una memoria così toccante fosse fuorviante rispetto all’opera di Donizetti, in cui la guerra è solo uno sfondo da non prendersi sul serio. Al collega rinvio per gli approfondimenti di dettaglio, limitandomi a rilevare che, nonostante il tentativo di correlare le immagini alla musica, quest’ultima ha finito col risultare sopraffatta, distraendo l’attenzione dalla direzione di Pidò, meritevole di essere gustata dalla prima all’ultima nota, in quanto capace di cogliere in pieno il carattere veramente singolare della versione originale della Fille du régiment, ormai irrinunciabile rispetto a quella che Donizetti stesso realizzò per l’Italia, che, come è noto, è davvero altra cosa, da recuperarsi, volendo, per curiosità di conoscenza. Per dare un senso all’impostazione registica, l’immagine di Marie anziana ritorna nel finale, sul quale simbolicamente i suoi occhi si chiudono. All’interno di tale malinconica cornice, la “ditta” Barbe & Doucet ha quindi raffigurato i ricordi della protagonista secondo quanto previsto nel testo, mettendo peraltro a frutto le proprie ben note doti di fantasia, a cominciare dalle scene, che altro non sono che l’ingrandimento di angoli degli arredi della Marie in casa di riposo, con tutte le loro suppellettili, scatole di medicinali comprese, contesto che per incanto si anima, un po’ come nel sogno di Clara dello Schiaccianoci. Un impianto incomprensibile senza il filmato che lo precede, sovraccarico di colori, straniante e surreale, innegabilmente non banale e azzeccato, che catapulta di botto il pubblico nel bizzarro plot dell’opera, sviluppato da Barbe e Doucet senza distorsioni, cercando di divertire e appassionare, con gusto e stile, quanto meno nella guida di interpreti che devono essere anche attori. Qualche piccolo scivolone, come la sfilata degli invitati al castello della Marchesa di Berkenfield visti come decrepiti relitti da ospizio, più grottesca che simpatica, si fa perdonare, anche perché ci pensa l’impagabile Arturo Brachetti (a Venezia era stata Marisa Laurito) a far sorridere prima nei panni di un’implacabile infermiera munita di un’inquietante siringona, quindi in quelli della Duchessa di Crakentorp, meravigliando con i suoi trasformismi. In un’esilarante gag Brachetti ha quindi cantato (si fa per dire, passando le note alte a Manuela Custer…) Ciribiribin, una di quelle canzoni che tutti conoscono. Ma vale la pena sottolineare che la scelta per l’occasione di questo valzerino da parte di Brachetti è stata sottile, poiché Ciribiribin prima di passare dalle ugole di tutti, dal Trio Lescano a Frank Sinatra, vide la luce in dialetto piemontese nel 1898 proprio in questa città, per mano di due torinesi di adozione (Luigi Pestalozza per la musica e Carlo Tiochet per il testo), diventando subito una hit senza precedenti grazie ad una soubrette…austriaca, Mitzi Kirchner. Cosa di meglio per il Tirolo della Fille du régiment? Tutto ci stava, dunque, nel rispetto di una tradizione secondo la quale la Fille du régiment, specie in versione francese, è anche un contenitore, dove in particolare quello della Duchessa è un rôle de camée per ospiti d’eccezione (si pensi alla Caballé a Vienna nel 2007, nella celebre e memorabile produzione di Laurent Pelly).
Pidò non si è sottratto al gioco coinvolgendo anche il pubblico, ma, come si diceva, quando si trattava di vigilare sulla migliore sostanza musicale dell’opera, non ha concesso licenze. Con agogica serrata ma non rigida, evitando facili pomposità marziali, lavorando sempre in punta di fioretto, con eleganza, verve e sentimento, ha reso di quest’opera il tratto più peculiare, ossia la capacità di Donizetti di conciliare le esigenze di una forma dai codici ben prescritti con le cifre sue più personali e inconfondibili, nella corda del patetico, nella fresca semplicità del comico e nell’istinto per una parodia superbamente ironica ma mai greve. I cantanti hanno trovato in lui un saldo sostegno, a partire da Giuliana Gianfaldoni, senz’altro a suo agio sul versante larmoyante della parte, nella quale ha potuto far valere la preziosa qualità del timbro lirico, l’inappuntabile disciplina della linea di canto sia sul piano del legato che delle dinamiche, dove ha colpito la sua rara padronanza tecnica di emissioni acute flautate ed eteree, messe al servizio di un’espressività di pacata, dolce mestizia. Viceversa, forse per indole prima ancora che per una più limitata componente brillante e virtuosistica del suo strumento, è parsa più debole nella caratterizzazione della Marie come ruvido e irrefrenabile “maschiaccio” da caserma, e anche le possibilità teatrali di una straordinaria situazione comica quale quella dell’air du salon del secondo atto sono state da lei colte in modo un po’ compassato, senza l’arguzia e la vivacità che ci si attenderebbe. Pur nell’ambito di una prova per molti aspetti lodevole, difficile negare che il personaggio, in definitiva, sia rimasto a metà del guado. John Osborn, forse soltanto senza lo smalto delle sue serate migliori, ha riproposto la sua ben nota lettura di Tonio. Come usa fare, il tenore americano ha personalizzato la pirotecnica sequela acuta di “Pour mon âme” con alcune variazioni (in particolare, nella ripresa, sulle parole “et mari”, quindi sul sesto e ottavo Do, e infine nella chiusa, spezzando la frase onde ripetere la nota). Prodezze che possono incidere sulla linea melodica e sulla perfetta quadratura ritmica del brano, ma il rischio è quasi del tutto evitato grazie alla musicalità dell’artista, che più ancora ha avuto modo di palesarsi nella romanza del secondo atto, cesellata con un esemplare gioco di chiaroscuri e di dinamiche, sostenuto magistralmente sul fiato a qualunque altezza e con omogeneità di registri, nel quadro di una coscienza stilistica inappuntabile. Manuela Custer si è distinta quale Marchesa di rango, non caricaturale, raffinata nei suoi couplets e costruita con attenzione e intelligenza sul piano psicologico grazie ad una resa davvero eccellente dei dialoghi parlati. Come Sulpice Simone Alberghini (chiamato a sostituire nelle ultime recite un indisposto Roberto de Candia) si è inserito nello spettacolo sotto ogni profilo con molta naturalezza, mentre Guillaume Andrieux ha impersonato Hortense con molto humour. Tutte a fuoco le parti di contorno (il tonante caporale di Lorenzo Battagion, il contadino di Alejandro Escobar e il notaio dell’attore Federico Vazzola). Ancora una volta puntuale e reattiva l’orchestra e non meno ammirevole il coro, ad una delle sue ultime prove con Andrea Secchi, destinato a breve a passare a Santa Cecilia, lasciando al suo successore Ulisse Trabacchin un complesso che ha saputo crescere con costanza, ora quanto mai duttile, di carattere e lontano dalla routine.
Giorgio Rampone
Foto: Andrea Macchia