PROKOFIEV Sinfonia n. 1 op. 25 “Classica”; Concerto n. 1 op. 19 per violino e orchestra; Sinfonia n. 7 op. 131violino Emmanuel Tjeknavorian Filarmonica della Scala, direttore Riccardo Chailly
Milano, Teatro degli Arcimboldi, 30 gennaio 2023
Trasferito all’ultimo momento al teatro degli Arcimboldi a causa della protesta dei lavoratori di palcoscenico scaligeri, questo concerto ha inteso celebrare Sergej Prokofiev nel settantesimo anniversario della sua morte, avvenuta il 5 marzo 1953, lo stesso giorno in cui scomparve Iosif Stalin, uno dei più grandi e temuti dittatori di tutti i tempi.
La prima parte del programma è stata incentrata su due composizioni, l’op. 25 e l’op. 19, che videro luce tra il 1916 e il 1917. Un breve arco di tempo, due soli anni, in cui il cammino della Storia e quello dell’arte di Prokofiev stavano procedendo in evidente antinomia. Da un lato un’atmosfera politica drammatica, culminata nel ’17 prima con la rivolta operaia di febbraio, le ondate di scioperi, la deposizione dello Zar Nicola II, poi con la rivoluzione d’ottobre; dall’altro un compositore che, all’opposto, si rinchiude nelle campagne intorno a San Pietroburgo, con l’idea di scrivere una Sinfonia “senza l’ausilio del pianoforte, contando sul fatto che un lavoro simile sarebbe stato caratterizzato da colori più naturali e trasparenti”. Stiamo parlando della Sinfonia “Classica” n. 1 op. 25, modellata sullo stile di Haydn, alla cui tecnica compositiva si era avvicinato grazie a Čerepnin, suo Maestro al Conservatorio: forma e stile antichi, limpidi, reinterpretati con linguaggio e colori moderni, dalle aree tonali chiare e dalle chiare cadenze perfette: insomma una strumentazione lontana dal gigantismo stravinskiano e straussiano e dagli esiti espressivi della Suite Scita. Forse una variante della Giovane Classicità busoniana? “Per “nuovo classicismo” intendo il dominio, il vaglio e lo sfruttamento di tutte le conquiste di esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle”. Nel 1917 Prokofiev componeva anche le Sonate n. 3 op. 28 e n. 4 op. 29 per pianoforte, le Visions fugitives e il Primo Concerto op. 19 per violino, qui in programma, che conobbe anche una versione per violino e pianoforte eseguita a Mosca da Nathan Milstein e Vladimir Horowitz il 21 ottobre 1923, tre giorni dopo il debutto parigino della versione originale al Théâtre de l’Opéra sotto la direzione di Sergej Koussevitzky, con Marcel Darrieux al violino.
L’impronta che Chailly ha inteso dare al concerto nel suo complesso, è stata delineata dal piglio sicuro, eccitato del gesto e dall’amalgama sonoro dei timbri, scelta di unione anziché di distinzione e di definizione del tratto, persino in quel gioiello di equilibri sottili che è la Sinfonia “Classica”op. 25. Eco del pensiero haydniano nell’eleganza della forma architettonica, non risolta tuttavia nell’esaltazione della purezza delle linee, che non avevano la precisione del tratto a china, ma si confondevano in un tutto sempre pastoso, denso, omogeneo. Prediletta l’eleganza della nostalgica Gavotta, scheggia di suite incastonata nella più moderna forma sonata, anziché l’ironia del secondo tema del primo movimento, con il suo buffo accompagnamento affidato ai fagotti, o il distacco ironico del tema in staccato di fagotti e archi del Larghetto. Ma a quale Prokofiev Chailly ha scelto di dare voce? Nell’Autobiografia Prokofiev parla delle sue “linee basi”, cinque: la “linea classica” della forma e il “filone moderno” del linguaggio, quindi quelle che afferiscono di più ai caratteri della musica, la linea “toccatistica o motoria”, quella “lirica” ed infine la “grottesca”. Senza dubbio Chailly ha prediletto la terza e la quarta, quella toccatistica e motoria e quella lirica per eccellenza.
Quando sul palcoscenico si è affacciato il violino di Emmanuel Tjeknavorian, l’atmosfera si è fatta più rarefatta, a cercare la dimensione “sognante”, così come indicato in partitura dallo stesso Prokofiev. Il suono del violinista di origine armena, ma nato e cresciuto a Vienna ed oggi lanciato soprattutto nella carriera di direttore d’orchestra, anche se nobilitato dalla ricerca di molte sottigliezze di suono, mancava però della profonda espressione parlante e della distinzione di suono di un Oistrakh, di un Perlman o di un Vengerov, soprattutto di una qualità tale da proiettarsi efficacemente in un sala come quella degli Arcimboldi, che “inghiotte” verso il palcoscenico e verso l’alto parte della sonorità prodotta. Particolarmente penalizzata l’articolazione dell’agilità dello Scherzo-Vivacissimo, che forse avrebbe richiesto una tecnica dell’arco più spigliata, un virtuosismo più estroverso, soprattutto nei passaggi finali al “ponticello”.
La seconda parte del concerto è stata incentrata su un capolavoro del tardo Prokofiev, la Sinfonia n. 7, opera dapprima completata nella versione pianistica il 20 marzo 1952, quindi orchestrata subito dopo, nell’arco di poco più di tre mesi, entro il 5 luglio dello stesso anno. Della partitura il pianista Anatolij Vedernikov fece una trascrizione per pianoforte a quattro mani, che ebbe il plauso di Kabalevskij. Ma la Sinfonia, che accoglie la reminiscenza, intrisa di malinconia, di temi cari all’infanzia di Prokofiev (nostalgia forse causata dal progressivo isolamento dell’artista, prossimo alla morte), conobbe anche il plauso di Shostakovich, che la definisce opera “piena di gioia, lirica e piacevolissima per i suoi contenuti luminosi e tersi e per il suo linguaggio armonico davvero insolito”, un’opera che “rende la vita più facile e più lieta da vivere”. Il debutto presso la Sala Grande del Conservatorio “Ciaikovskij” di Mosca avvenne l’11 ottobre 1952.
La Sinfonia n. 7 esordisce con una melodia lirica, tersa, nella insolita tonalità di do diesis minore — quella del Quartetto op.131 di Beethoven, non a caso op.131 come questa Settima di Prokofiev — affidata ai violini, ma sostenuta da un oscuro impasto di corni, tromboni e tuba, alla quale si contrappone un’altra linea melodica di viole, violoncelli e contrabbassi: con Chailly ha richiamato immediatamente alla memoria l’universo di Ciaikovski, il più occidentalizzato dei compositori russi, dalle plastiche melodie sentimentali ad arco lungo. Una tendenza al lirismo puro che a partire dal canto intrecciato del primo tema del Moderato iniziale, nel quale si sente l’eco della malinconia di certi canti popolari russi, ha permeato tutta la costruzione sinfonica della Sinfonia. In secondo piano, con il direttore d’orchestra milanese, quei tratti di aggressività e di sarcasmo che avevano reso celebre il musicista nel periodo occidentale, a parte qualche frammento qua e là, come nella codetta dell’esposizione del primo movimento, nel ticchettio surreale dei legni con il triangolo.
Molti momenti della Sinfonia, soprattutto dei primi tre movimenti, con Chailly avrebbero potuto ben figurare nelle scene d’amore del balletto Romeo e Giulietta o nella Cenerentola: l’Allegretto-Allegro in tempo di valzer, o l’Andante espressivo, in forma di tema con variazioni, un vero caleidoscopio di soluzioni strumentali che cambiano di continuo registri e atteggiamenti. Nel tema con variazioni, in cui il tema viene dalle inedite musiche di scena scritte nel 1936 per una versione teatrale dell’Evgenij Onegin di Pushkin, come nel finale Vivace sono però apparsi fuori controllo timbrico certi interventi di xilofono, arpa e pianoforte o dei campanelli, xilofono e pianoforte, di un entusiasmo piuttosto scomposto.
Nel Finale la brillantezza dei clangori si è sciolta nuovamente nella ripresa del secondo tema del primo movimento, che con Chailly ha avuto un ruolo apicale rispetto a tutta la logica del concerto. In conclusione, la coda aggiunta, che di rado si esegue, appendice grazie alla quale la Sinfonia vinse il Premio Lenin nel 1957: diciassette battute trascinanti, scritte su esplicita richiesta di alcuni membri dell’Unione compositori, nel solco dei dettami di Zdanov, che hanno rappresentato la conclusione ottimistica di una serata di tranquillo successo.
Silvia Limongelli
Foto: Hanninen / Filarmonica della Scala