DONIZETTI Lucia di Lammermoor L. Oropesa, J.D. Flórez, B. Pinkhasovich, L. Cortellazzi, V. Pluzhnikova, G. Misseri; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly regia, scene e costumi Yannis Kokkos
Milano, Teatro alla Scala, 16 aprile 2023
Si tratta dello spettacolo inaugurale previsto per la stagione 2020/21, poi annullato per via della pandemia, e finalmente portato in scena in questo mese di aprile 2023, con i due stessi protagonisti allora scritturati e il nuovo allestimento di Yannis Kokkos: opera amatissima, Lucia di Lammermoor, ma non così presente sul palcoscenico scaligero come altri titoli di grande repertorio poiché, come ci si accorge sfogliando il sempre informatissimo programma di sala, alle “tre volte” dello spettacolo di Pier’Alli (1992, 1997 e 2006, con l’addio al ruolo di Mariella Devia) seguì quello di Mary Zimmermann, importato da New York, con 15 recite tra il 2014 e l’anno successivo. Come gran parte delle opere eseguite tante, talora troppe volte in ogni angolo del mondo, la storia di Lucia è ricchissima di tagli, aggiunte, interpolazioni, cambiamenti, a partire dalla sera stessa della prima napoletana del 1835, quando il suonatore di glassarmonica non si presentò e lo strumento fu sostituito, all’impronta o quasi, dal flauto, privando la scena della pazzia di quel timbro inimitabile (da cui anche Mozart trasse due capolavori), che riflette fisicamente la mente sconvolta, survoltata della protagonista. La glassarmonica fu già presente, alla Scala, nelle recite del 2006 e in disco addirittura nella meravigliosa incisione con Beverly Sills e Carlo Bergonzi (1970), e viene doverosamente scelta anche da Riccardo Chailly per questa produzione, che si avvale inoltre dell’edizione critica preparata da Dotto e Parker, eseguita nella sua assoluta integrità e con la riscoperta di alcune battute praticamente nuove (nella cavatina introduttiva di Lucia; alla fine del coro “Oh qual funesto”; prima di “Spargi d’amaro pianto”), il cui innesto non è una mera curiosità filologica ma, specie negli ultimi due casi, donano una struttura nuova e ancora più affascinante ai rispettivi numeri. Con grande buonsenso, Chailly tiene conto della tradizione esecutiva dell’opera, specie nelle parti vocali: quindi il Sol acuto di Enrico in “Cruda, funesta smania” viene mantenuto, i sopracuti di chiusura sono quasi sempre presenti, così come certe varianti tradizionali. Non c’è, però, la grande cadenza della pazzia, quella ideata da Nellie Melba e poi divenuta punto fisso dell’opera: al suo posto Lisette Oropesa realizza una breve fioritura nell’ambitus armonico indicato in partitura, chiudendo poi come scritto dall’autore, con effetto certo meno grandioso ma altrettanto sicuramente più raffinato. E poi — ciò che forse più conta — Riccardo Chailly firma una delle sue direzioni più compiute di questi anni scaligeri: l’attenzione agli impasti orchestrali è continua, ma sempre ravvivata da un senso del teatro che rispetta ed esalta il canto, in un’elasticità addirittura virtuosistica. L’orchestra — solo occasionalmente un po’ pesante rispetto alla caratura delle voci in palcoscenico — ha un colore ambrato, una intensità addirittura miracolosa, che mai si affida alla facile cantabilità, preferendo sempre una sorta di pudore espressivo, di velatura gotica che è il segreto della partitura di Donizetti (e forse anche del romanzo di Walter Scott). In questo, certo, gli equilibri timbrici ottenuti nella scena di pazzia erano perfetti: ma è difficile anche dimenticare l’intensità schumanniana del breve preludio all’aria finale di Edgardo. Cura testuale, intelligenza nella scelta delle varianti, fantasia nella concertazione e virtuosismo tecnico nel realizzare tutto quanto immaginato: difficile immaginare di meglio.
Evidente, poi, il lavoro certosino svolto con i cantanti (nonostante tempi di prova accorciati da un problema di salute del Maestro): Lisette Oropesa, che a rigore non avrebbe nulla di eccezionale nel suo strumento, certamente ottimo ma non particolare né per estensione né per colore, e la cui coloratura è precisa ma non fosforescente come quella di tantissime Lucie di ieri e oggi, si rivela alla fine una protagonista di grande intensità. Perché, affrontando la parte nella sua integrità assoluta, sa trovare un colore giusto, un’inflessione appropriata per ogni momento, dipingendo un personaggio di fragile femminilità, ma non veramente tragico fin dall’inizio, salvo poi rivelare tutto il suo dramma nel duetto con il fratello e, ovviamente, nella scena di pazzia, in cui il “dialogo” con la glassarmonica è memorabile. E la scelta di aggiungere, alla seconda recita (cui ho assistito), un intervallo supplementare ha permesso alla Oropesa di gestire con più equilibrio le forze rispetto alla prima: una Lucia — lo ripeto — che alle singole “voci” (per così dire) si dimostra convincente, ma non eccezionale, ma nel suo complesso emoziona e travolge l’ascoltatore. Di sorprendente qualità si mostra anche il baritono russo Boris Pinkhasovich, un Enrico dal metallo lucente e dalla vocalità maschia, sufficientemente educata per affrontare con coerenza una scrittura di stampo belcantistico, ma anche per svettare grazie ad un accento incisivo e stilisticamente inappuntabile; con lui i due tenori Leonardo Cortellazzi e Giorgio Misseri si rivelano due veri lussi nelle parti di Arturo e Normanno. Nel parlare, poi, di Michele Pertusi si rischia di essere stucchevoli: ma la statura gigantesca di un artista del suo calibro è qualcosa che lascia ogni volta grati e ammirati. Non è solo la perfezione ancora praticamente intonsa di un canto morbido, timbrato, “sul fiato”, capace di salire e scendere con una sola colonna di fiato: è la nobiltà del fraseggio, la scolpitura della dizione, l’intensità conferita al personaggio, anche in un’aria — certo non ispiratissima — come “Cedi, ah cedi”, che nell’esecuzione di Pertusi (e Chailly: mirabili certi “stringendo” nella cabaletta) trova un punto di riferimento inarrivabile. E che lo laurea — sembra strano a dirsi, trattandosi di un personaggio tutto sommato non principale — quale migliore del cast. Resta Juan Diego Flórez, amatissimo dal pubblico scaligero, le cui doti sono ben note: tecnica a prova di bomba, dizione chiarissima, gestione virtuosistica del fiato. Eppure, nonostante tutti i tentativi che sta facendo per affrancarsi dal repertorio rossiniano di elezione, il tenore peruviano mostra una sorta di incompatibilità di base con un ruolo-Duprez: non ne ha la cavata (e non è solo questione di volume, pur davvero esiguo in taluni momenti), non ha l’accento al color bianco, non ha quella sorta di idealizzazione del dolore e della morte che dovrebbe sprigionarsi da “Tu che a Dio” (che tra l’altro, eseguito senza il consueto taglio delle poche battute finali, diventa ancora più micidiale). Flórez imita tutto questo, e talora benissimo: ma non è mai davvero Edgardo, se non in qualche momento, come ad esempio in un “Fra poco a me ricovero” davvero splendido.
Resterebbe da parlare dello spettacolo di Yannis Kokkos, sorta di relitto dal passato di un non-teatro fatto di scene cupe, buone per qualsiasi titolo, statue animalesche, pose convenzionali, una generale banalità: certo, rispetto allo scempio compiuto da Hugo de Ana nei Vespri, almeno Kokkos garantisce una certa qualità professionale, ma per un titolo così incredibilmente ricco di potenzialità drammaturgiche è davvero poco, ed è il caso che la Scala ripensi radicalmente la sua politica in fatto di registi, davvero fallimentare negli ultimi titoli.
Teatro esauritissimo (per tutte le recite) e successo caldissimo.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala