ROSSINI Mosè in Egitto R. Zanellato, D. Monaco, A. Pellegrini, A. Pascu, M. Battistelli, A. Schisano, M. Mezzaro, A. Galli; Orchestra Filarmonica Italiana, Coro Lirico di Modena, direttore Giovanni Di Stefano regìa Pier Francesco Maestrini scene e video Nicolás Boni costumi Stefania Scaraggi
Reggio Emilia, Teatro Municipale “Romolo Valli”, 17 novembre 2024
Riscoprire la magia dell’opera, proprio con quella di Rossini forse meno magica e, certo, più squilibrata nella forma, più statica nella drammaturgia, meno effervescente nelle pirotecnie vocalistiche, diseguale nell’ispirazione (in sostanziosa parte devoluta a valenti colleghi), debole e squadrata nella caratterizzazione dei personaggi, tra i quali solo l’amoroso malvagio – solo per necessità d’amore? – Osiride godette di un sommaria elaborazione (Mosè pontifica e profeticamente sacramenta tutto il tempo, Aronne — come sarebbe poi stato per il suo equivalente schoenberghiano –, canta nel deserto ove nissun l’ascolta, il Faraone è una banderuola imbecille, la regina Amaltea una sorta di Tito in gonnella: costretta ad esser sempre buona a tutti i costi; Elcia fa solo la Prima Donna, con qualche castigo) — riscoprire, dicevamo, quanto di magico vi sia in quella mostruosità ch’è l’opera in musica in una consimile occasione, sa quasi di paradosso. Ma anche i paradossi hanno del prodigioso e – dunque – una loro magìa!
Se nella favolosa narrazione il Popol di Giuda ebbe due formidabili guide in quello che chiamarono Moshé Rabbenu e nel di lui fratello Aronne, la presente riproposizione della traduzione operistica operata dal Tottola e da Rossini di quella mitica fuga ha avuto gli alteri ego del profeta e della sua bocca nel regista Maestrini e nel concertatore Di Stefano. Il primo ha intelligentemente rinunciato a vivacizzare la trama o a stravolgerla, come va di moda, inquadrandola in una quasi immobilità scenica sopra la quale si agitavano video-proiezioni (magnificamente realizzate da Nicolás Boni) con effetti speciali che ponevano sul primo piano della vicenda i suoi aspetti sovrannaturali, prevaricanti perfino su quelli religiosi (di cui erano manifestazione) e su quelli politici (che ne erano la causa scatenante): pura fantasia, più Signore degli anelli che Libro dell’Esodo. Sì che l’agitarsi tempestoso delle folte nubi in cielo, il divampare degli incendî, il fulminare delle folgori carnefici, saettanti come una ghigliottina sul capo dell’empio Osiride, per tacer lo schiudersi del Sinus Arabicus e il suo spettacolare rovesciarsi sugli Egizî inseguitori, sono alleggeriti da ogni sovrastruttura pretesa divina per scatenarli come effetti di pura magia teatrale, di autentico fantastico. E la ricomparsa di Mosè, solenne, di statuaria imponenza, dopo la tempesta, sullo scoglio dal quale avea fatto separar l’acque di Yam Suf è di una forza suggestiva, quella sì, non esautorata di timor divinitatis e soggiogante.
Giovanni Di Stefano, dal canto suo, ha fatto quello che sogneremmo fosse sempre tenuto come il principio primo del direttore d’opera: ha guidato con mano ferma ma elastica, secondando il canto e accettato senza compromessi l’orchestrazione talora sovrabbondante alla quale Rossini ricorse, con generosità d’effetti bandistici e non di rado un poco baccanosi, per pingere le numerose manifestazioni sovrannaturali, usando quegli espedienti proprio per evidenziare la particolare bisogna. E quando ha dovuto prendersi le responsabilità del concertatore sinfonico, sia nel breve ma assai incisivo preludio che nell’anzi imponente postludio orchestrale che accompagna la traversata del secco mare e il micidiale richiudersi d’esso, il Maestro ha tornito d’energici ma rifiniti colori la emozionante partitura. Sono, a ben vedere, i due momenti più originali e più ricchi di genio dell’opera. Forse il fantomatico incontro descritto dal Michotte tra Wagner e Rossini non ebbe mai luogo (mi dicono ancora reperibile il libriccino che ne discuteva, col testo del Michotte pubblicato dalle elegantissime Edizioni dell’Elefante nel 1988), ma che il Gran Novatore si fosse davvero ispirato al Mosè per le conclusioni sinfoniche della Valchiria e – soprattutto, gigantesca – del Crepuscolo degli Dèi?
In siffatta scatola registica e nel suo esemplare arredo strumentale, si sono potuti muovere a loro agio e con condivisa bravura tutti gli interpreti vocali dell’opera, oltre naturalmente all’eccellente orchestra e all’ammirevole coro (quattro gatti che parevano un branco di leoni). Dai piccoli ruoli di Mambre e di Amenofi, risolti con efficacia scenica e musicale da Andrea Galli e Angela Schisano, all’Aronne morbidamente squillante del perfetto Matteo Mezzaro, al Faraone baritonale di Andrea Pellegrini, al Mosè imperioso di Riccardo Zanellato, sull’imponenza scenica del quale, l’autorevolezza del fraseggiatore, la duttilità del vocalista è già stato tutto detto e ripetuto, sì che qui basti riaffermarlo con ammirazione.
Due parole a parte vorrei spendere per i tre cantanti i quali, per me che non li conoscevo, sono state delle rivelazioni. Il delizioso tenore Dave Monaco, dal vocino di zanzara ma di timbro incantevole e squillantissimo sugli acuti (mi ha ricordato le epoche pionieristiche nelle quali i ruoli bari-tenorili come quello di Osiride erano affidati a tenori leggeri: indimenticabili, tra questi, Nicola Tagger e Pietro Bottazzo: oggi potremmo pensare a un Filippo Adami), vario e autorevole nel fraseggio, che nei momenti di furore si fa quasi isterico, senza mai perdere la linea musicale. Aida Pascu ha dato anima e temperamento ad Elcia, sfoggiando un timbro scuro e quasi mezzosopranile, perfetto “modello Colbran”, creatrice del ruolo, con agilità che in tanta doviziosa messe di voce assumevano, per la loro sciolta precisione, un rilievo spiccato: la attendiamo con fauste speranze in ruoli più caratterizzati, anche dal punto di vista vocalistico.
Infine la bellissima Mariam Battistelli, dal timbro caratteristicamente acidulo, ma penetrantissimo, come una lama di Toledo foggiata nell’acciaio della lega migliore. Il giovane soprano ha scavato l’interpretazione di Amaltea con grande intelligenza, sì che un personaggio a tratti quasi pleonastico ha assunto rilievo di protagonista, divenendo figura irrinunciabile della trama. Scenicamente la Battistelli ha fuso l’agile mobilità della regina – che compare sempre al momento giusto per sbrogliare le situazioni rese periclitanti dall’intrigar d’Osiride (figlio del Faraone, ma non di Amaltea), quale una non comica Donna Elvira guastafeste – con la immobilità dei gesti, le braccia sempre stese lungo i fianchi, come in non parodica imitazione di un murale egizio: stupenda. Come cantante, l’artista ha mostrato una splendida padronanza di dizione, scanditissima nei recitativi e sorretta da un fraseggio severo, mai esornativo, nei passi cantabili. E nella sua aria – la più articolata e difficile dell’opera – ha lavorato di cesello sui piani espressivi dell’arioso per gettarsi con baldanzosa temerità nelle gorgheggianti “volate” della cabaletta, la quale – per non venir, come sembra, dalla penna di Rossini – sciorina con perigliosa dovizia tutto il campionario degli stilemi a marchio registrato rossiniano. Ed è stata la chiave di volta dello svolgere della trama.
E così, per una sera, ho potuto tornare a divertirmi all’opera.
Bernardo Pieri