MOZART Così fan tutte E. Buratto, E. d’Angelo, F. Guida, A. Arduini, B. Volkov, P. Spagnoli; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Giovanni Antonini regia Michael Hampe ripresa da Lorenza Cantini scene e costumi Mauro Pagano
Milano, Teatro alla Scala, 23 gennaio 2021
Finalmente, con un ritardo non scusabile, anche la Scala torna a produrre un’opera in forma scenica, dopo 11 mesi di buio (dal 22 febbraio 2020, prima e ultima recita del Turco in Italia): senza pubblico — al di là di noi addetti ai lavori — e con l’orchestra a livello del palcoscenico, certo, ma almeno è un segnale di vitalità. La posizione dell’orchestra, in effetti, potrebbe far venire in mente esperimenti filologici, poiché più o meno simile era all’epoca mozartiana, e per tutto il primo Ottocento: ma certo la disposizione e la quantità dei musicisti era ben differente. Né Giovanni Antonini, subentrato ad Antonio Pappano, sembrava avere in mente nulla del genere, la sua concertazione essendosi rivelata il maggiore elemento di delusione della serata, a conferma del fatto che troppo spesso musicisti di estrazione “barocca”, una volta di fronte ad orchestre tradizionali perdano la loro freschezza di approccio, o quantomeno non riescano a trasmetterla, andando a finire in una sorta di terra di nessuno che non ha né la sontuosa, tradizionale eloquenza del Mozart all’italiana, né la ventata di energia ormai ben nota a chi abbia ascoltato Harnoncourt, Jacobs e tanti altri. Un Così fan tutte, insomma, dall’andamento pesante, dai tempi stranamente indugianti (le due arie di Despina, poi, ingiustificabilmente lente), poco chiaro nella “dizione” orchestrale, del tutto privo di canto (il miracoloso “Soave sia il vento” è passato via inosservato) e di quell’ambiguità dei sentimenti che è il connotato più evidente del teatro mozartiano, e del Così in ispecie. Che poi Antonini abbia accolto i due tagli tradizionali (il duettino “Al fato dan legge” e l’aria di Ferrando “Ah, lo veggio”) lo si può, forse, imputare allo spettacolo di Hampe, ma certo fa pensare a una scarsa efficacia del direttore milanese nell’imporre la propria personalità. La regia, ripresa con diligenza da Lorenza Cantini, si avvale delle belle, luminose scene di Mauro Pagano, che riflettono una Napoli acquarellata, da tela di Fragonard, e di costumi altrettanto eleganti: ma l’eleganza non fa il teatro, e vedere affidata l’opera più sconvolgente, crudele e vera di Mozart a tale museo delle cere, a tale totale assenza di una regia che non sia l’organizzazione convenzionale di movimenti e gesti, è qualcosa che non riesco davvero a giustificare, neppure in emergenza pandemica. So che i cultori degli spettacoli “come libretto prescrive” sono numerosi: ma davvero, vorrei sapere da loro che senso ha, se non lo si astrae a livello simbolico, una storia in cui due “dame ferraresi” sono sedotte da “nobili albanesi” in una Napoli che non è altro che la traduzione di Neustadt, distretto di Vienna in cui — si dice — sia avvenuta la vicenda cui Da Ponte si è ispirato.
Nel cast, brillava la stella di Eleonora Buratto: dopo il felice debutto parmense in Ernani, un’altra presa di ruolo del tutto riuscita per la lanciatissima artista mantovana, che sa intelligentemente alleggerire la propria robusta emissione senza mai snaturarla, raggiungendo acuti saldi e luminosi con la stessa sicurezza di un registro grave saggiamente affidato ad un’emissione mista, che ne certificano la natura di sapiente vocalista. Le due grandi arie, quindi, sono altrettante vette della serata: anzi, la spavalderia con cui affronta le terzine di “Come scoglio” e l’accento intensamente malinconico di “Per pietà” fanno pensare con curiosità a quando, il mese prossimo, rivisiterà il ruolo a Torino con Riccardo Muti, che sul Così ha scritto parole definitive. Interessante anche Emily d’Angelo, italo canadese vincitrice di numerosi concorsi, che ha ottima dizione, dei centri piuttosto metallici ma ben proiettati, e un’ottima sintonia timbrica con la Buratto la quale, però, la sopravanza di molte spanne nella ricchezza dinamica, nella capacità di sfumare l’emissione. Federica Guida, poi, conferma di essere più che una promessa: dopo il trionfo a Portofino con le acrobazie vocali della Regina della Notte, sa adattarsi con gusto e spigliatezza alla tessitura ben più centralizzante di Despina, a cui offre la grazia di una figura bella e giovanile e la brillantezza della sua giovane età. E il fatto che nei due travestimenti rinunci alle orride vociaccie caricaturali praticate da troppe sue colleghe è qualcosa di cui la ringraziamo sentitamente.
Meno interessante, infine, il comparto maschile: Pietro Spagnoli è l’ottimo artista che ben conosciamo, ma un Don Alfonso così bonaccione e privo di una dimensione cinica, per non dire manipolatrice, è qualcosa che limita fortemente il personaggio. E se Alessio Arduini è un discreto Guglielmo, dalla linea sufficientemente elegante e sonora, il russo Bogdan Volkov va a infittire le fila dei tenori caduti nell’affrontare Ferrando; e che lo faccia meglio di altri, non sposta di molto il discorso.
Appuntamento a febbraio con Salome con la regia di Michieletto e la direzione di Mehta: quasi certamente, ancora senza pubblico, poiché — è noto — questo problema non rappresenta minimamente una priorità per il ministro fantasma.
Nicola Cattò
Foto: Brescia / Amisano, Teatro alla Scala