CILEA Adriana Lecouvreur B. Frittoli, M. Álvarez, J. Kutasi, D. Cecconi, F. Benetti, D. Pieri; Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Valerio Galli regia, scene e costumi Ivan Stefanutti
Genova, Teatro Carlo Felice, 16 febbraio 2020
Venir assimilata a un Verismo di cui solo in piccola parte Francesco Cilea condivise le prospettive e i risultati espressivi, è un destino a cui Adriana Lecouvreur fatica a sfuggire, nonostante gli studi da tempo abbiano ben chiarito la posizione a sé stante dell’opera e del compositore. Anche in questo spettacolo genovese (che riprende un allestimento originariamente andato in scena a Como quasi vent’anni or sono, ma che rimane giustamente in circolazione) ad avvicinarla a una temperatura espressiva più consona semmai ad Andrea Chénier è stata soprattutto l’enfasi della direzione e di alcuni interpreti; ma da un certo punto di vista ha contribuito al risultato anche la stessa visione scenica di Ivan Stefanutti, che ha pensato di ambientare l’opera ai tempi del suo battesimo (1902), con marcati riferimenti all’architettura e all’arredamento Art Nouveau, creando un parallelismo tra la Lecouvreur e le grandi attrici dell’epoca, ormai in procinto di diventare le prime Dive del cinema: in particolare un grande ritratto a figura intera della (peraltro genovese) Lyda Borelli campeggia emblematicamente nel quarto atto. Un decoro assai pregevole (davvero bellissimi i costumi!) e dalla forte impronta figurativa, ma che tende a decontestualizzare i riferimenti al Settecento che tanto eran cari a Cilea nonché ad appiattire le essenziali differenze di casta tra i protagonisti («Incauta! Noi siam povera gente», ammonisce presago il buon Michonnet), di cui gli interpreti, come accennato, proiettano un’immagine ben poco aristocratica.
Questo vale soprattutto per il Maurizio di Marcelo Álvarez e per la Principessa di Judit Kutasi. Il tenore argentino ha ritratto un Conte di Sassonia alquanto latino, epidermico, perfino nervoso nel gesto un po’ convulso e nel canto spesso di sbalzo; la vocalità svettante ed eloquente spicca nei momenti più sfogati del secondo e del quarto atto e nella romanza del «russo Mencikòff», racconto al quale questo Maurizio estroverso non fatica ad abbandonarsi con spavalderia; ma il fraseggio è privo di sottigliezze in «L’anima ho stanca» e nella romanza del primo atto, che canta integralmente mezzoforte senza accennare non dico la smorzatura sul La bemolle a «vincitor» (che nessuno tenta mai) ma neppure i tanti attacchi pianissimo e piano richiesti dallo spartito. Sfumature che tuttavia non sono mere bellurie belcantistiche, ma varrebbero a mostrare in Maurizio una ricchezza interiore capace di riscattarlo in parte da un carattere piuttosto umbratile. Anche la Kutasi incarna una Bouillon assai poco nobile, e l’ardore con cui dispiega i notevolissimi mezzi andrebbe sicuramente arginato con profitto: bisogna aggiungere però che la sostanza della voce è tale da risultare comunque elettrizzante, e il canto ribattuto con cui nel terzo atto prima riconosce Adriana, e poi dà la falsa notizia del duello, calza al possente strumento con vibrante effetto drammatico.
Da questo quadro spiccava ancor più intensamente proprio per finezza e per ricchezza e nobiltà interiore l’Adriana di Barbara Frittoli, costruita principalmente sulle mezze tinte, senza pregiudizio però dell’opportuna incisività di momenti come le battute forte e accentate che suggellano il monologo di Fedra (declamato peraltro assai bene); capace di portamenti eleganti nella romanza di sortita e di una «Poveri Fiori» raffinata ma assieme intensa, il soprano milanese ha mostrato di allineare a buon diritto il proprio nome a quello delle tante celebri primedonne che l’hanno preceduta nel ruolo, riuscendo a proporre la sua Lecouvreur, emancipata da qualsiasi modello: sensibile, malinconica ma appassionata, il confronto con personaggi più tagliati con l’accetta finiva per accentuare la solitudine a cui Adriana è destinata. Un isolamento spezzato soltanto dal riuscito Michonnet di Devid Cecconi, omone dal cuor tenero che suscitava empatia, e che vocalmente colpiva per la solidità del registro acuto. Tra i tanti comprimari, tutti efficaci, spiccava l’eloquente Abate di Didier Pieri, mentre occorre ammettere che il balletto in stile Nijinski (coreografia di Michele Cosentino) tutto sommato si integrava meglio al contesto che tante altre versioni più rispettosamente arcadiche.
Resta da dire della direzione di Valerio Galli: anche in questo caso è difficile dare una valutazione netta, dato che la sua qualità di far cantare l’orchestra (ad esempio nell’«Andante triste» che apre il quarto atto e nell’appassionato episodio orchestrale Adagio più che pianissimo che segue a «il nostro amor sfida la sorte») si è spinta a tratti a un’enfasi eccessiva e a volumi sonori che finivano per pregiudicare gli equilibri col palcoscenico (mettendo in rilievo, anziché appianarle, le differenze di volume tra le voci nei concertati).
Roberto Brusotti
Foto: Marcello Orselli