VERDI Rigoletto L. Salsi, J. Camarena, E. Kamani, C. Piva, A. Cacciamani, R. Lyulkin; Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, direttore Riccardo Frizza regia Davide Livermore scene Giò Forma costumi Gianluca Falaschi
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 23 febbraio 2021
Dialogico, dialogistico, maièutico. «Termine con cui viene generalmente designato il metodo dialogico tipico di Socrate il quale, secondo Platone (dialogo Teeteto), si sarebbe comportato come una levatrice, aiutando gli altri a “partorire” la verità: tale metodo consisteva nell’esercizio del dialogo, ossia in domande e risposte tali da spingere l’interlocutore a ricercare dentro di sé la verità, determinandola in maniera il più possibile autonoma di un dramma».
Ecco cos’è, principalmente questo Rigoletto, visto al Teatro del Maggio Fiorentino il 23 febbraio scorso (e prossimamente disponibile per lo streaming).
Un Rigoletto interamente giocato sulla dialogica, sull’interazione fra i personaggi, costretti nei serratissimi schemi dell’opera italiana, in tanti duetti che connotano quest’opera come capolavoro senza tempo.
Doveva essere per Verdi la prima opera del cambiamento, doveva essere per lui il prodromo verso la liberazione dagli schemi, di cui invece Rigoletto divenne il capolavoro.
Pieno di monologhi e duetti, di numeri obbligati in una struttura rigida e consolidata dai contorni netti e definiti, Rigoletto fu anche la contraddizione più esplicita, che si mostra qui, a Firenze, nell’edizione Frizza-Livermore, con un bagliore accecante.
Dialogica, maieutica, s’è detto, ma ancora una volta confluenza di due testi, distinti e uniti, che sono il libretto e la partitura, le parole e la musica, mai prima d’ora legati e indissolubilmente votati alla comprensione del fatto drammaturgico. Laddove l’intonazione costringeva il testo a farsi sequenza informe di parole e sillabe, in Rigoletto si recupera la linearità dell’argomento verbale, si forgia la poesia e la si riporta a comune sentire: «la donna è mobile / qual piuma al vento / muta d’accento / e di pensier».
Vi è, in Rigoletto, uno sforzo tutto teso al recupero della parola nella sua identità metrica del verso, consolidata in strutture strofiche, pur decostruite dall’aria e ricostruite in versi sciolti: «Pari siamo!… Io la lingua, egli ha il pugnale».
Insomma, si avverte questo nel Rigoletto di Frizza, dove ogni sillaba viene inserita, scolpita è il caso di dire, nella partitura verdiana che non ha posto per le caccole, per i rimaneggiamenti della tradizione aulica che trova sempre consenziente e protagonista il grande “zio” Leo. Leo Nucci, grande assente in questo progetto in cui non avrebbe avuto forse molto da dire e che è stato, non a caso, sostituito da quel Luca Salsi che costituisce esattamente quel che ci vuole: un cantante ineccepibile nella lettura della partitura, preciso e netto come nessun’altri, interprete affidabile e preciso.
Frizza ritrova in Verdi, l’autore della “parola scenica”, che non riguarda esclusivamente il rapporto drammaturgia/spettacolo, ma investe anche prepotentemente la musica, divenuta funzionale, parte integrante del dramma che si sta raccontando, che si sta rappresentando. E Frizza raccoglie, è bravo a cavalcare questo rapporto e a farlo diventare protagonista. Ne fa elemento centrale col quale tutto dovrà interagire: il cantante, l’orchestra, il palcoscenico tutto. Questo Rigoletto espone ogni scena all’effetto sortito.
E proprio come Verdi ragiona, così Davide Livermore interpreta. E propone la sua scena essenzialmente sul piano della posizione e dell’effetto, due elementi, superiori al testo e alla musica, che Verdi conosceva bene e che costituivano l’ossatura di ogni sua opera lirica fino a quel momento, fino almeno al momento dell’incontro con Shakespeare.
Livermore ricorre a tre ambienti distinti a descrivere i tre atti. Un settecento regale nel primo, una moderna lavanderia sotterranea nel secondo, un night club ottocentesco nel terzo. Senza alcuna connotazione temporale gli ambienti, senza coerenza consequenziale i costumi, il dramma che descrive Livermore assume una dimensione altra, che non definisce nulla, in senso di coerenza, ma che attribuisce al tempo stesso un alto significato semiotico all’universo drammaturgico verdiano.
Di Luca Salsi, s’è detto, interprete raffinato di un Verdi finalmente rappresentato in toto nel suo vero ambiente musicale. Altri interpreti di ampio respiro la Gilda di Enkeleda Kamani, soprano raffinatissimo, dedita all’intonazione come poche, capace di agilità complesse e respiri, fiati, di altissimo lignaggio. Bene fa Frizza a concederle i suoi tempi, a condurla tenacemente verso gli abbellimenti a Gilda dedicati. La sua facilità nel canto merita ogni attenzione e riguardo. Voce compatta e inaspettatamente potente, quella di Javier Camarena, un Duca forse meno disegnato ma vero, terribilmente vero. Ignaro, inconsapevole, raggiunge con arte gli acuti più belli dell’intera partitura. Declama e rinforza un personaggio assai poco empatico con un controllo invidiabile e con una recitazione asciutta, mai sopra le righe. Di ottimo timbro Caterina Piva, che sa come si canta Maddalena e ha tutte le doti per farla ben figurare in voce e corpo. Bravo anche suo fratello in scena, Sparafucile, mentre di altro livello, incomprensibile in dizione e dalla impostazione confusa Valentina Corò, Giovanna. Il conte di Monterone, Roman Lyulkin, il Marullo di Francesco Samuele Venuti e Davide Piva, il conte di Ceprano si distinguono nel vasto reparto dei comprimari.
Lo spettacolo si è avvalso della buona prestazione dell’Orchestra e del Coro del Maggio Fiorentino, ancora pesantemente penalizzato dall’uso delle mascherine, di un ottimo impianto luci affidato ad Antonio Castro, dei bellissimi costumi di Gianluca Falaschi e delle significative scene di Giò Forma. Ancora un sentitissimo grazie a Riccardo Frizza e Davide Livermore che ci hanno permesso la visione di questo ur-Rigoletto e al sovrintendente Alexander Pereira per la sua instancabile determinazione a fare teatro, mettendo gli spettacoli in cartellone e ostinandosi a tenerceli.
Davide Toschi
Foto: Michele Monasta