MOZART Così fan tutte M. Bengtsson, P. Gardina, A. Arduini, P. Kolgatin, E. de Negri, M.F. Romano; Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo, direttore Riccardo Muti regia Chiara Muti scene Leila Fteita costumi Alessandro Lai
Napoli, Teatro di San Carlo, 25 novembre 2018
Dopo Le Nozze di Figaro del 2016, Chiara Muti torna a Mozart nell’opera che dichiara di amare di più, e lo fa riproponendo, in questo allestimento che il San Carlo ha coprodotto con la Wiener Staatsoper, quella che è ormai la sua consolidata cifra stilistica: una limpida azione teatrale in cui l’esprit géométrique razionale si fonde con l’esprit de finesse dei sentimenti in un gioco drammaturgico di elegante fattura. E non suoni come lesa maestà verso il genio ormai acclarato del Maestro sul podio, se diciamo che il punto di forza di questo allestimento è proprio la messinscena, che si distingue dalle molte altre produzioni viste per la raffinatezza del “sentimento” registico e la capacità di tradurlo in rappresentazione scenica. Un vero teatro in musica, dove la musica scandiva come un metronomo la drammaturgia e a sua volta veniva da questa interpretata come un copione. Perché, mentre di solito è il libretto di un’opera che sottostà alle esigenze della musica, nelle mani della Muti avviene che la partitura mozartiana diventi essa stessa una sceneggiatura che i protagonisti, anche quando non cantano, rendono visibile con i perfetti, sincronici movimenti di scena, rendendo più chiaro il fluire della storia e penetrando con grazia e profondità nelle sfumature psicologiche dei personaggi. La regia, dunque, al pari della musica, scandiva le vicende delle due coppie di amanti (più una terza formata da Don Alfonso e Despina) con precisione e leggerezza, rivelando il magistero strehleriano che la Muti rivendica con orgoglio. La storia delle due giovani sorelle la cui costanza è messa alla prova dai due finti soldati albanesi su istigazione del cinico Don Alfonso, con l’aiuto della cameriera Despina, può essere rappresentata come una farsa leggera o come un appassionante dramma psicologico sul rapporto di coppia. La regista sceglie una terza via: una riflessione sulla disillusione verso la vita, sulla fine dell’innocenza fanciullesca a cui i protagonisti dicono addio per sempre. L’ambientazione di costumi e scene (tutti giocati sui toni di bianco) richiamava rigorosamente, ma senza appesantimenti di colore locale, l’ambientazione a Napoli, alla fine del 1700, con sullo sfondo un Mediterraneo lamé evocativo e impalpabile.
Come Fiordiligi, a Maria Bengtsson è toccata la parte più impegnativa dal punto di vista del canto, data la complessità dell’aria “Come scoglio” nell’Atto I e del lungo rondò, “Per pietà, ben mio, perdona”, nell’atto II; il soprano ha un timbro bello e ricco di sfumature, ed ha creato una donna credibile, attirata dalla sorella nel dilemma morale (tradire o restare fedele?) che è al centro della storia.
Come Dorabella, il mezzosoprano Paola Gardina è stata un’interprete notevole, per la voce e per la verve scenica, nel ruolo della sorella più volubile, che porta Ferrando alla disperazione. Con la sua voce, flessibile e musicalmente attraente, ha reso benissimo le arie “Smanie implacabili” e la graziosissima “È amore un ladroncello”.
Il più ardente dei due maschi, Ferrando, era cantato da Pavel Kolgatin, che ha creato un personaggio plausibile, come del resto ha fatto Alessio Arduini come Guglielmo. La cameriera Despina era una bravissima e spiritosa Emmanuelle de Negri, che non ha ceduto alla tentazione di caratterizzare troppo il personaggio in senso farsesco e, con l’aiuto del travestimento, ha disegnato con intelligenza il notaio e il medico. La sua recitazione era sostenuta da un timbro sopranile leggero flessibile, che è stato particolarmente considerevole nelle arie “In uomini, in soldati” e “Una donna a quindici anni”.
La palma di miglior cantante e attore della serata va però sicuramente a Marco Filippo Romano, che ha interpretato Don Alfonso con disinvoltura e finezza. È importante però ribadire, che, al di là della bravura dei singoli, è stato soprattutto il lavoro d’insieme ad essere esemplare.
Riccardo Muti ha offerto una ulteriore grande prova della sua bravura, guidando un’orchestra e coro in grande forma, e cantanti sensibili al suo tocco; il Maestro si riconosce già dall’ouverture, per il suo stile fluido e sicuro, un deus ex machina sempre presente ma discreto, spesso (e intelligentemente) togliendo, più che mettendo. Ha consentito così alla regia e ai cantanti di dispiegare appieno le loro energie, a totale beneficio dell’intero lavoro, a cui il pubblico ha consacrato alla fine un vero trionfo.
Lorenzo Fiorito
(Foto: Silvia Lelli)