MAHLER Sinfonia n. 10 in fa diesis maggiore “Adagio” BRAHMS Ein deutsches Requiem op. 45 soprano Louise Alder baritono Gerald Finley Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Philippe Jordan
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 7 dicembre 2023
Mentre al Teatro alla Scala si svolgeva il lungo rito di un Sant’Ambrogio nel nome di Verdi e del suo capolavoro forse massimo, il Don Carlo, a Roma un’Accademia di Santa Cecilia non molto affollata accoglieva un concerto di assai meno clamoroso intento. Lo dirigeva Philippe Jordan, che dopo il distacco dall’Opéra di Parigi, è sempre più legato ai teatri e alle orchestre di area austro-tedesca (Vienna, Berlino, Bayreuth) e che a Roma mancava dal 2012. Il programma scelto era singolarmente coerente per essere le due pagine, pur separate da quasi quarant’anni, entrambe segnate da uno speciale iter meditativo. L’Adagio della Decima Sinfonia di Gustav Mahler – al di là di tutte le ormai troppo note questioni sulla retrostante crisi del matrimonio con Alma o delle troppo evanescenti ipotesi di una ricostruzione dell’intera sinfonia – a noi è sempre parso (come l’Incompiuta di Schubert) un testo di certissima compiutezza. Proprio per quel suo essere un “torso” o una sorta di corrosa scultura, a mo’ delle più inquietanti di Alberto Giacometti. E che forse assai patirebbe ad esser completato e riempito. Qui per Mahler, la conscientia finis è una devastante presa d’atto, ma anche un aprirsi a brevi spazi di luce, che si insinuano a contraddire la disperazione, ad indurre il passo verso un approdo di quiete immancabile. Jordan ne ha dato una lettura assai distante da quelle intese – talora in modo che vorremmo dire ideologico – a vedervi tanto Novecento e tanta Wienerschüle (Abbado e Boulez, per non fare nomi). Il direttore svizzero vi ha proposto un suono non disseccato, non pointilliste, non graffiante, ma pieno, talora solenne, violento certo (quell’improvviso, atterrito grido degli ottoni quasi alla fine); corroso dalla sofferenza, ma non ancora disgregato, con un corpo che muore a questa vita, ma si avvia a rinascere in un’altra. Desolazione e consolazione sono state la dialettica che in modo virile e potente Jordan ha proposto in tale – diciamolo senza ambagi – estremo e sublime vertice mahleriano.
Ein deutsches Requiem di Brahms è opera proposta assai di frequente nei Concerti Accademici (dalla prima volta che lo udimmo, diretto da Giulini, nel 1980, questa è la dodicesima edizione) ed ogni ascolto (non tutt’e dodici, beninteso) ci conferma la singolare grandezza di una partitura che è di un trentenne e par opera di un’alta maturità e di un’originalità che la pongono solo accanto al Requiem per Mignon di Schumann e al Requiem “per coloro che amiamo” di Hindemith. Ove al proprio della Missa pro defunctis cattolica, subentra una scelta “d’autore” di testi biblici o poetici che vanno a costituire una cantata piuttosto che una messa. E che nel caso di Brahms ritrovano quella dimensione ora dolcemente intima, ora d’eloquente fervore ch’era stata di Schütz, di Bach, di Telemann e che riflette la migliore spiritualità luterana. Due vie maestre hanno segnato la più che illustre storia interpretativa dell’op. 45 di Brahms: quella che dell’Amburghese staglia la figura di narratore, pur in metri di poesia, del tramonto di un’epoca, della crisi di una civiltà, alla Robert Musil o alla Thomas Mann. Che è a dire Klemperer, Furtwängler, Thielemann. Quella che al contrario vede nel Requiem il dibattersi delle angosce, delle riflessioni d’un uomo solo, intento a cogitare su sé stesso e forse sulle Cose Ultime. Che è a dire Giulini, Walter, Jochum (e quel mirabile capolavoro che fu l’edizione diretta da Schippers a Spoleto, che da tempo si vorrebbe ripubblicare, esistendone un discreto video). Philippe Jordan ha scelto una via certamente più prossima alla prima (non troppo spazio avendo egli dato all’intimismo e alla delicatezza), ma – dei nomi in quella ora citati – senza l’afflato tragico e la profondità di scandaglio epocale. Questo Ein deutsches Requiem ci è parso sì imponente, architettato con sapienza in ogni dettaglio, formalmente irreprensibile, ricco di suono e di colori, ma appena troppo concreto, troppo carnale, quasi che al posto di un inquietante Hieronymus Bosch, tal Apocalisse fosse stata dipinta da un Peter Paul Rubens, per non dir da un Botero. Ciò che è stato d’indubbio effetto su un pubblico italiano e romano in particolare; ma nelle nebbie d’Amburgo o nella severa cattedrale di Brema (ove se ne diede la prima assoluta) sarebbe stato meno compreso. Molto bravo il soprano Louise Alder nel suo “Ihr habt nun Traurigkeit”, mentre la voce del pur celebre Gerald Finley è parsa appena stanca e comunque tutt’altro che tonante come dovrebbesi in “Herr, lehre doch mich”. Splendidi coro e orchestra, quest’ultima soprattutto nell’impervio Adagio di Mahler.
Maurizio Modugno