BACH Preludio e Fuga in mi min. BWV 855 CHOPIN Studio in mi minore op. 25 n. 5; Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2; Studio in la minore op. 10 n. 12 GLASS Étude n. 9 BOSSO Before six SCHUMANN da Studi Sinfonici op. 13: Variazioni postume III, IV e V SCARLATTI Sonata in si bemolle maggiore K 248; Sonata in la maggiore K 208; Sonata in re minore K 141 RAVEL da Miroirs: Oiseaux tristes GLUCK Melodia da Orfeo ed Euridice (trascrizione di G. Sgambati) BOSSO Following a bird (Unconditioned. Out of the room) BACH Sinfonia n. 7 in mi minore BWV 793; Sinfonia n. 11 in sol minore BWV 797 BOSSO da Sinfonia Oceans: IV movimento. Antartic – Finale. “Landfall. We unfold” (trascrizione di F. Libetta) pianoforte Francesco Libetta
Milano, Sala Verdi del Conservatorio, 23 ottobre 2024
La tesi comune fra appassionati di pianoforte e critici (quelli che rimangono…) è che oggi si suoni il pianoforte mediamente meglio di un tempo, ma che le vette delle personalità somme, immediatamente identificabili, di qualche decennio fa siano scarse o quasi assenti, e che in ogni caso le personalità dei singoli artisti tendano troppo a sovrapporsi; qualcosa di vero c’è, ma d’altro canto onestà vuole che almeno in Italia non abbiamo mai avuto una scuola pianistica che abbia prodotto tanti talenti come negli ultimi 15-20 anni, con successi evidenti anche all’estero, da Beatrice Rana in giù. Quello che semmai dispiace, e che è una delle concause di una evidente crisi di pubblico nella musica strumentale dal vivo (anche ieri in Sala Verdi non è che facessimo a pugni per entrare…), è che il repertorio si sia omologato non solo nel ventaglio di brani proposti dai pianisti stessi — e non parliamo poi dei Concerti con orchestra! — ma anche in un certo modo di suonare, all’insegna dell’efficientismo tecnico, di una brillantezza esibita e pensata come riflesso del perfezionismo discografico che ormai l’ascoltatore si aspetta. Francesco Libetta è sempre stato, nei suoi oltre trent’anni di carriera, un outsider: in Sala Verdi si ricorda ancora la sua storica, prodigiosa integrale Chopin-Godowsky (a memoria!), ma la stupefacente digitalità del pianista salentino non è mai stato l’obiettivo finale del suo fare musica, semmai un mezzo per ricreare, come in un gioco di specchi e illusioni, un mondo pianistico i cui modelli si possono fare risalire ai primi decenni del ‘900. E il fantasma di Horowitz risuonava anche ieri, con un programma singolarissimo, che oggi nessun altro proporrebbe, assemblato per la Società dei Concerti: un gran numero di pagine brevi, di pochi minuti, da Bach a Ravel, passando per Schumann, Scarlatti e Chopin, con il focus finale su Ezio Bosso, alla cui musica Libetta si è dedicato negli ultimi anni. Ma non basta leggere la lista dei brani: l’idea che collegava Bach a Chopin, e poi questi a Glass e Bosso, si basava su un suono vespertino e aurorato, dalla luce calda e intensa (nonostante un pianoforte Fazioli che non mi è parso eccezionale) e dal fraseggio intimo, domestico. Il Preludio e Fuga dal Clavicembalo ben temperato, tutto letto “all’antica”, portava naturalmente — grazie anche a uno dei tanti passaggi modulanti che Libetta inseriva tra un brano e l’altro: qualcosa che si faceva tanti, tanti anni fa e la cui riproposta il compianto Piero Rattalino ha sempre auspicato — al celeberrimo Notturno in mi bemolle proposto con le ornamentazioni che (pare) risalgano a Chopin stesso, e che comunque sono state raccolte dai suoi alunni, secondo una dimensione operistica e vocalistica, di aria da camera, che informava l’intero concerto. E lo stesso vale per il trittico di Sonate scarlattiane: viste in una tinta crepuscolare e fanée, ma senza rinunciare alla zampata del virtuoso nei ribattuti esattissimi e nel gioco di sonorità della K 141 in re minore. D’altronde, il colore vespertino lo dava anche la presenza quasi totalizzante delle tonalità minori nei brani proposti, compresi i due bis (Emily’s Room di Bosso e il Valzer in la minore di Chopin, anch’esso generosamente variato con strepitosi effetti d’eco e una “tinta” complessiva davvero memorabile) e le pagine di Bosso, che risultano gradevoli, ancorché non certo memorabili, nella dimensione del “foglio d’album” di pochi minuti; ma gli oltre venti del quarto movimento della sua Sinfonia, da Libetta funambolicamente trascritta per pianoforte solo, mettono a nudo un’architettura davvero debole. Una volta Paolo Isotta (citatissimo nella biografia di Libetta inserita nel programma di sala) scrisse di Pavarotti: “quello che gli manca, altri tenori lo possiedono; ma quello che ha lui, non ce l’ha nessuno al mondo”: mutatis mutandis, lo stesso vale per Francesco Libetta, un concerto del quale è sempre un’opportunità rara, forse unica, di rimettere in discussione i propri punti di vista, anche quando non si è d’accordo con lui o non se ne apprezzano alcune scelte. Lo ha fatto suonando brani notissimi, quali in gran parte erano quelli proposti a Milano. Ed è da qui, forse, che dovrebbero ripartire tanti pianisti di oggi: ma per farlo ci vogliono la sua testa e le sue mani.
Nicola Cattò