- 29 maggio, Chiesa di S. Marcellino: Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi, Accademia Bizantina, direttore Ottavio Dantone Coro Ghislieri, direttore Luca Colombo Schola gregoriana Ghislieri, direttore Renato Cadel
- 16 giugno, Chiesa di S. Michele Vetere: Venezia, tra sacro e profano (Monteverdi, Castello), Europa Galante, direttore Fabio Biondi.
- 20 giugno, Chiesa di S. Marcellino: Selva Morale e Spirituale, (Monteverdi, Castello, Fontana), Les Arts Florissants, direttore William Christie.
- 22 giugno, Chiesa di S. Marcellino: Monteverdi antico e nuovo (Monteverdi, Castello), Modo Antiquo, direttore Federico Maria Sardelli.
- 23 giugno, Teatro “Ponchielli”: Gala Concert (Monteverdi, Corelli, Vivaldi, Geminiani, Händel) Cecilia Bartoli Les Musiciens du Prince, direttore Gianluca Capuano.
In apertura e chiusura dell’edizione 2024 del Festival Monteverdi di Cremona – “Dove tutto è nato e tutto rinasce” – le parole del sovrintendente Andrea Cigni hanno fatto da corollario, illustrando in breve l’estetica del Festival: la Bellezza! Uno status ufficializzato anche dalle recenti «Modifiche all’art. 2 della legge 20 dicembre 2012, n. 238 per la realizzazione del Monteverdi Festival di Cremona», ovvero l’assoluto prestigio internazionale riconosciuto ufficialmente all’evento artistico-musicale che più di ogni altro contraddistingue la città Cremona. Inaugurazione con tutti i crismi, grazie a una magnifica versione del Vespro monteverdiano, concertato da quel “padreterno” di Ottavio Dantone; chiusura in pompa magna con “Santa” Cecilia Bartoli, gloria nazionale che ha donato alla patria del “divin Claudio” una serata che va stamparsi a caratteri cubitali e maiuscoli nella memoria dei brulicanti accoliti e degli addetti ai lavori. Prima dell’inizio della serata del 23 giugno Cigni – nobile e signorile “padrone di casa” – ha tenuto ad annunciare di persona una nuova edizione de Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi e un’inedita messinscena de L’Ercole amante di Francesco Cavalli, titoli previsti per l’edizione 2025. Quest’anno è toccato, invece, alla nuova versione de L’Orfeo monteverdiano – per la regia di Oliver Fredj e la direzione di Francesco Corti alla testa de Il Pomo d’Oro (14 e 21 giugno, teatro “Ponchielli”) – rinascere dove tutto è nato.
Ma procediamo con ordine, quasi sempre presente in cartellone, soprattutto per merito dei fasti gardineriani che periodicamente rinverdiscono il Festival (lo scorso 14 giugno Sir John Eliot ha incontrato il pubblico cremonese, pur senza esibirsi, ma con gli “onori di casa” di Antonio Greco e dei “suoi” Solisti del Coro e Orchestra Monteverdi Festival – Cremona Antiqua), il Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi è risuonato, come manifesto inaugurale, grazie alla sapiente guida di Ottavio Dantone. Frequentatore assiduo del Festival (come non ricordare il suo tour de force con l’esecuzione integrale dei due volumi del Wohltemperiertes Klavier di J.S. Bach, e molto altro ancora) e riconosciuto specialista monteverdiano, Dantone rinuncia a “spettacolarizzare” il Vespro, non indugia in espedienti coreografici (come la spazializzazione sonora attraverso la dislocazione di consort e solisti, giocando, ora sull’antifonìa ora sulla responsorialità, suggerite dalla scrittura); al contrario sembra voler divulgare il precetto secondo cui sia sufficiente far parlare la musica sola. È infatti il testo, inteso sia affettivamente, come retorica musicale insegna, sia dal punto di vista dell’intelligibilità, la percezione della parola, la chiave di lettura del “suo” Vespro. Forte di una compagine strumentale varia, colorata e davvero precisa media tra un approccio muscolare e contemplativo a seconda delle esigenze – come già detto – della scrittura musicale, ma soprattutto del Testo. E per far ciò dispone di un assetto corale di grande caratura vocale e duttilità espressiva, quale il Coro Ghislieri (schierato in formazione 5/4/4/5). Proposto senza soluzione di continuità e con le antifone gregoriane precedenti i salmi, a loro volta seguiti dai mottetti concertati, il Vespro convince per la personale visione globale, che pur nella varietà cangiante dell’ordito polifonico e della monodia accompagnata, attua come ratio l’unitarietà dei mezzi espressivi e la subalternità del mimetismo madrigalistico tout court.
Si diceva dunque una visione musicale iridescente, ma non frastagliata, unitaria sì, ma tridimensionale, dove la spazializzazione architettonica delle voci è data dal respiro che in essa, circolandovi, abita. Teniamo presente questo concetto che tra poco richiamerò.
Un approccio alla musica di Monteverdi in chiave più “concertante” è sicuramente quello che muove il violinista e direttore Fabio Biondi alla guida di Europa Galante. Un concerto, dal titolo Venezia, tra sacro e profano, diviso in due parti (che seguiva la presentazione al “Ponchielli” del libro di Giuseppe Clericetti Claudio Monteverdi: miracolosa bellezza, pubblicato recentemente per Zecchini Editore). La prima in cui, senza soluzione di continuità e con maestria sopraffina si sono proposte composizioni strumentali di Dario Castello in funzione di preludio-intonazione a composizioni concertate di Claudio Monteverdi. Questa è stata la parte in cui hanno risaltato maggiormente le doti dell’ensemble strumentale, forte di una sezione di continuo davvero ricca e pulsante. Biondi non ha mai smesso di imbracciare da par suo il proprio strumento, nemmeno durante la seconda parte, in cui è stata proposta a parti reali la Messa da Cappella a quattro voci tratta dalla monteverdiana Selva Morale e Spirituale. In questo caso gli strumenti hanno raddoppiato le voci – secondo una lettura molto rapida e serrata – dell’intero ciclo polifonico dell’Ordinario, sicché tutto è scorso con molta precisione e fluidità, concedendo ben poco spazio all’afflato mistico. Un approccio forse un tantino superficiale, ma comunque molto convincente.
Lo stesso discorso, invece, non si può applicare alla deludente serata in cui si attendeva – io per primo – il grande ritorno di William Christie e del suo mitico Les Arts Florissants. In scaletta un excursus dalla Selva Morale e Spirituale, che ricalcava il programma proposto in uno dei dischi più emblematici – almeno per chi scrive – della moderna ricezione monteverdiana, cioè estratti della Selva registrati nel luglio 1986 per Harmonia Mundi France. L’ultima volta che ebbi la fortuna di sentire Christie dal vivo fu in occasione della versione integrale in forma di concerto di Acis and Galatea di Händel, uno dei più bei concerti cui abbia potuto assistere in vita mia: un sogno sotto tutti i punti di vista! Dunque le aspettative erano davvero alte e nate sotto i migliori auspici. Cominciamo subito col dire che fare musica “a parti reali” è una decisione legittima, senz’altro a patto che non sia viva come un dogma (vedi il Bach di Joshua Rifkin e seguaci), ma soprattutto purché le parti garantiscano standard da solisti pur comportandosi sinergicamente da ensemble. Nata sì sotto una cattiva stella – organo positivo, con un’intonazione a dir poco traballante, scelto come unico strumento realizzatore del basso continuo, cui tutti hanno dovuto accordarsi – la serata, “sgonfia”, è stata “portata a casa” con la maestria di un artista consumato e di grandissimo calibro. Ma che sofferenza quei battimenti! Un’occasione mancata, un vero peccato dovuto anche all’acustica della chiesa di S. Marcellino che non avvantaggia per niente l’equilibrio delle parti negli ensemble di ridotte dimensioni, laddove il solo cello con il solo violone appesantiscono al grave, non aiutando punto la tessitura vocale acuta ad appoggiarsi al basso.
Un problema – se così vogliamo chiamarlo – riscontrato anche nel concerto Monteverdi antico e nuovo: la Missa e i Salmi concertati proposto da Federico Maria Sardelli e dal suo Modo Antiquo. Tanto versato nel repertorio del maturo Barocco, Vivaldi in primis, Sardelli manca in Monteverdi di ciò cui si accennava prima: iridescenza, tridimensionalità, respiro. La monteverdiana Missa In illo tempore – proposta anch’essa a sei parti reali e basso continuo – è stata dunque un’altra occasione mancata. Quando la scrittura si mostra di chiara matrice polifonica, ereditata dai franco-fiamminghi e dai fiamminghi trapiantati a Roma e Venezia, diventa idiomatica anche in virtù di una resa squisitamente vocale. Qui non c’entra la divisione tra stile sacro e stile profano, anche i madrigali polifonici, al massimo funzionano con il continuo realizzato da un solo strumento a corda, come il chitarrone o la tiorba (non con organo, viola da gamba e violone). Il discorso vocale, laddove è il testo a guidare la musica – sia per contenuto che per chiarezza di dizione – è il punto cedevole della piatta lettura di Sardelli. La parte strumentale, pienamente espressa nelle due Sonate di Dario Castello, è stata la migliore della serata, soprattutto grazie all’abilità degli ottimi solisti. Ne cito solo un paio: Andrea Inghisciano al cornetto e Alessandro Nasello alla dulciana (due strumenti davvero difficili da domare).
Discorso a parte merita il Gala Concert al teatro “Ponchielli” con la partecipazione di Cecilia Bartoli. Non avrebbe potuto esserci miglior finale – pirotecnico sì, ma gestito con grandissima eleganza e musicalità sopraffina – in cui una vera stella del firmamento vocale ha brillato, in tutta la sua intelligenza, nella gestione dei mezzi che padroneggia – una volta di più non guasta ricordarlo – da “Diva”! Come giustamente ha avuto modo di rimarcare più volte Alberto Mattioli (referente per la comunicazione e per le relazioni esterne del Monteverdi Festival), tutti i “divi” dividono il pubblico, ma è assolutamente innegabile che – o la si ami o la si odi – Cecilia Bartoli sia un’artista di altissima caratura e che, contesa tra Vecchio e Nuovo Mondo, abbia regalato a Cremona uno dei momenti più alti degli anni 2000. Una serata ritagliata su misura per “Lei”: cinque interventi solistici cuciti a puntino (dal patetico, drammatico, al guerresco), cui hanno fatto da “polpa” i solisti e l’orchestra monegasca Musiciens du Prince, diretti da Gianluca Capuano (ottimo accompagnatore). Diciamo che l’ethos di Bartoli è stato tutto all’insegna della sobrietà – una lezione di intonazione assoluta e di nuances infinitesimali – in cui non sono certo mancati i momenti di agilità che l’hanno resa famosa nel mondo. Giusto due parole per chiarire quanto appena detto. Nessuna entrata da diva, ma sempre noblesse nei confronti dell’orchestra – avranno forse un gusto po’ troppo francese, ma suonano magnificamente – degli autori presentati – Händel, Monteverdi, Vivaldi – infine dell’adorante e strabordante pubblico. Il cuore del programma un omaggio a Monteverdi con un pot-pourri strumentale dei temi fondamentali de L’Orfeo (dalla Toccata iniziale alla Moresca finale) e Sì dolce è ’l tormento, una canzonetta a quattro strofe resa dalla Bartoli sempre più patetica, assecondando il significato dei versi, tanto da muovere tutti a commozione. Tre Concerti grossi di Corelli, Händel e Geminiani – come dicevo, suonati in maniera impeccabile more gallicano – hanno adornato tre chicche in cui i bravissimi solisti hanno gareggiato alla pari con la voce della Bartoli: il flautista Jean-Marc Goujon in Augelletti che cantate dal Rinaldo di Händel e Sol da te, mio dolce amore da Orlando furioso di Vivaldi; l’oboista Pier Luigi Fabretti e il trombettista Thibaud Robinne in Desterò dell’empia Dite da Amadigi di Händel. Non sono mancati mazzi di rose e fiori gettati in palcoscenico, standing ovation e diverse richieste di bis. E al grido di “Santa” Cecilia [patrona della musica e dei musicisti] sono fioccati due bis da antologia in cui si sono sprecate cadenze al libitum di voce e tromba – anche, vivaddio, un po’ sopra le righe – così che dopo Piangerò la sorte mia dall’handeliano Giulio Cesare è toccato A facile vittoria dal Tassilone di Agostino Steffani inerpicarsi in cadenze e improvvisazioni che hanno sconfinato nel gerswhiniano Summertime, laddove la tromba barocca naturale di Thibaud Robinne si è arroventata, facendo salire la temperatura emotiva di tutti, ma poi giustamente ha cadenzato concludendo il ritornello strumentale finale nell’originale tonalità d’impianto. Che meraviglia!!!
Michele Bosio