MENOTTI The Telephone PERGOLESI La Serva Padrona G. Bolcato, F. Polinelli, M. Pirovano; FORM Orchestra Filarmonica Marchigiana, direttore Flavio Emilio Scogna regia scene costumi Jacopo Fo
BARTÓK Il castello di Barbablù A. Mastroni, M.E. Williams; Orchestra del Teatro Coccia di Novara, direttore Marco Alibrando regia Deda Cristina Colonna scene e costumi Matteo Capobianco
Jesi, Teatro Pergolesi, 23 e 31 ottobre 2021
L’incertezza dovuta alla pandemia ha condizionato, per forza di cose, anche la programmazione dei teatri e, in particolare, di quelli di dimensioni più contenute come è il caso del Teatro Pergolesi di Jesi che, trasformando i limiti in opportunità, ha impostato una stagione tutta dedicata ai rapporti di coppia, con una serie di opere “a due”, alcune anche di ascolto non frequentissimo in provincia, come è il caso del capolavoro di Bartók Il castello di Barbablù, peraltro alla sua prima rappresentazione jesina, salvo errori. Vista molte volte a Jesi è stata, al contrario, La Serva Padrona del genius loci Pergolesi che, in questa ultima rappresentazione 2021, è stata allestita nella redazione critica approntata da Francesco Degrada: un’edizione molto brillante e piacevole, in cui tanto la Serpina di Giulia Bolcato che l’Uberto di Filippo Polinelli si sono dimostrati cantanti-attori frizzanti e spiritosi, con l’ausilio di un fraseggio molto disinvolto e di una buona cura filologica nell’inserire raffinate variazioni nelle riprese dei momenti solistici; entrambi, peraltro, avevano brillato nella prima parte della serata con la deliziosa The Telephone di Menotti, interpretata con un tocco di garbo surreale che non è mai sconfinato nel cattivo gusto. Una volta lodata la mimica irresistibile di Mario Pirovano, interprete di Vespone oltre che dei vari interlocutori telefonici di Lucy in Menotti, bisognerà anche parlare del coloratissimo e divertente spettacolo con regia di Jacopo Fo, che con delicatezza e tocchi surreali ha condotto in porto la vicenda coinvolgendo e divertendo il pubblico presente, che è piacevole sottolineare quanto fosse numeroso e, soprattutto, rispettoso delle regole volte a contenere la pandemia. Molto buona la prova della Form guidata da Flavio Emilio Scogna; accoglienza calorosa al termine da parte di un pubblico divertito e, soprattutto, contento di tornare a teatro.
Un’accoglienza del pari calorosa si è avuta al termine dell’atto unico di Béla Bartók, presentato in un’orchestrazione per organico orchestrale ridotto a cura di Paola Magnanini e Salvatore Passantino, che ha contenuto a soli 23 elementi l’originaria, ampia, orchestrazione: il lavoro di adattamento si è rivelato molto ben fatto e la mancanza della timbrica originaria di Bartók non si è avvertita come si poteva temere. Merito, certo, anche della direzione di Marco Alibrando (a capo dell’Orchestra del Coccia di Novara, con cui lo spettacolo era coprodotto), che ha impostato la narrazione nell’ambito di una forte drammaticità, in questo coadiuvato da due interpreti vocali all’altezza. Andrea Mastroni è stato un Barbablù di voce profonda e intensa, perfettamente a suo agio nell’estroso costume rosso che lo avvolgeva oltre che nella tessitura del ruolo; l’aspra parte di Judith è stata affrontata con slancio da Mary Elizabeth Williams, forse più mezzosoprano che soprano (un po’ stridulo, ma comunque presente all’appello il Do della Quinta Porta) ma nel complesso autrice di una prova di forte impatto. Suggestivo, pur nella semplicità di mezzi, l’allestimento con regia di Deda Cristina Colonna, che racconta la vicenda basandosi soprattutto su begli effetti di luce (notevole lo scintillare delle luci di sala all’apertura della Quinta Porta, così come il raffinato giardino liberty che cala alla Quarta Porta) mentre non ha colpito molto la commissione di un nuovo preludio musicato da Claudio Scannavini prima del Prologo recitato non da un bardo, ma da due attrici (Giuditta Pascucci e Carolina Rapillo).
Gabriele Cesaretti