“Dagli immortali vertici”: Chung a Santa Cecilia

Le prove dello Stabat Mater

SCHUBERT Sinfonia n. 8 in si minore “Incompiuta” ROSSINI Stabat Mater per soli, coro e orchestra Chiara Isotton, Teresa Iervolino, Levy Sekgapane, Adolfo Corrado; Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Myung-Whun Chung

Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia 16 gennaio 2025

Dopo il vero trionfo dei tre concerti della settimana scorsa (Concerto per violino di Brahms con Sergej Khachatryan e la Settima di Beethoven), Myung-Whun Chung è tornato sul podio di quella che per anni è stata la sua orchestra, per una serata composta da altri due “immortali vertici” della storia della musica, ovvero l’Incompiuta di Schubert e lo Stabat Mater di Rossini. Un programma che spesso Thomas Schippers portava a New York o a Cincinnati, talvolta con la Pastorale al posto dell’Incompiuta. E con il quale avrebbe dovuto inaugurare quella sua direzione stabile dell’orchestra ceciliana che mai poté aver luogo. Solo nel 1988 l’Accademia avrà un direttore stabile, con Giuseppe Sinopoli, seguito nel 1992 da Daniele Gatti, nel 1997 appunto da Chung, nel 2005 da sir Antonio Pappano per il suo quasi-ventennio; ed oggi, com’è noto, da Daniel Harding. Da tutti costoro (Schippers compreso) la sinfonia schubertiana è stata più volte eseguita, mentre lo Stabat è stato un protratto appannaggio dello stesso Chung e di Pappano.

L’esecuzione dell’Incompiuta, or ora ascoltata il 16 gennaio, ci è parsa di eccelso livello. Il direttore coreano è sembrato voler proiettare assai in avanti una partitura che in fondo è del 1822: ma che ci viene qui additata come fertile grembo di molti sinfonismi a venire, precipuo e beninteso quello di Anton Bruckner, Già con l’attacco di violoncelli e contrabbassi, che altri avrebbero detto Feierlich- Misterioso e che sembrava sorgere dai recessi più profondi della mente. E così poi, con le desolate enunciazioni del clarinetto, dell’oboe, del corno (eccezionale Guglielmo Pellarin) sul tappeto fremente degli archi, Chung ha schiuso uno scenario nel quale l’inoltrarsi, in angosciata dialettica tra enigma e dramma, risuona potente ed intimo, cupo e sfolgorante insieme. In un Weltschmerz che ha non di poco superato le occasionali riflessioni mozartiane, per profetizzare quelle, qui sorgive, ma poi lungamente e sempre più dolorosamente delibate, del crepuscolo del secolo. Nel secondo tempo Chung ha alternato un andamento quasi cameristico a veri e propri climax di imponente energia: per spegnersi da ultimo in quella sempre più sommessa conclusione, che certamente è aperta, ma a qual seguito non è dato sapere.

Appena meno di tal superbo Schubert, ci ha convinti lo Stabat Mater rossiniano. Sicuro, la qualità sonora e drammatica dell’Introduzione ci è parsa straordinaria; e così l’Eja Mater o il leggendario Amen finale: anche ed invero per la resa di strumenti orchestrali e di voci corali che alla bacchetta di Chung sembrano obbedire con slancio. Non eccelsa ci è parsa la resa dei numeri solistici o d’ensemble. La cui decriptazione stilistica è indubbiamente non facile, ma che più volte son parsi un po’ tirati via. E non certo favoriti da cantanti che avremmo senz’altro voluto migliori: essendo il tenore sudafricano Levy Sekgapane, latore d’una voce non più che da comprimario (ma il re bemolle c’è stato e squillante) e il basso Adolfo Corrado poco udibile nei gravi e ordinario nel fraseggio. Assai meglio le signore: e soprattutto la bravissima Teresa Iervolino, mentre Chiara Isotton ha temperamento e comunicativa, ha raggiunto con agio i due do sopracuti, ma il timbro, a tratti un po’ vuoto e arido, non è il suo punto forte.

Sala Santa Cecilia stracolma, sia per il concerto con Khachatryan, sia per questo cui eravamo presenti. E successo dei maggiori.

Maurizio Modugno

Data di pubblicazione: 17 Gennaio 2025

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