VERDI La Traviata A. Kurzak, A. Volpe, D. Mazzucato, P. Petrov, L. Nucci, C. Bosi, G. Montresor, D. Giulianini, R. Dal Zovo, M. René Cosotti, S. Rinaldi; Coro e Orchestra dell’Arena di Verona, direttore Daniel Oren regia e scene Franco Zeffirelli costumi Maurizio Millenotti
Verona, Arena, 4 luglio 2019
Platea delle grandi occasioni per l’inaugurazione della stagione areniana 2019. La coincidenza fortuita (verrebbe da dire fortunata, se non suonasse assai male) della scomparsa di Franco Zeffirelli, che all’età di 96 anni e in condizioni fisiche precarie si era assunto l’onere dell’ennesimo allestimento di Traviata, ha richiamato divi del jet set strapaesano e autorità politiche. Da segnalare la presenza luminosa del Presidente Sergio Mattarella, assai applaudito dal pubblico, di alcuni ministri della nostra tristissima Repubblica, della Presidente del Senato. La diretta televisiva, condotta da Antonella Clerici e dal tenorissimo Vittorio Grigolo, trasmessa in mondovisione, ha attinto a piene mani, durante gli intervalli, alla platea chiamando per improbabili interviste Pippo Baudo, l’ex consorte Katia Ricciarelli, Vittorio Sgarbi, la padrona di casa Cecilia Gasdia, Gabriel Garko — che era stato diretto dal regista nel film Callas forever accanto a Fanny Ardant. Tutti a celebrare il grande regista fiorentino, di cui si sono visti e ascoltati spezzoni di interviste in un maxi schermo portato sul palcoscenico areniano prima dell’inizio dell’opera e subito dopo l’inno di Mameli.
Lo spettacolo — lo diciamo subito — è di quelli che lasciano l’amaro in bocca perché raffazzonato e mal condotto dai collaboratori del regista, la cui capacità nel muovere le enormi masse e i singoli cantanti guarda da lontananze siderali la maestria del grande Zeffirelli. Che sarà stato un regista all’antica, di quelli che non si possono più vedere a teatro, ma che ci ha lasciato alcuni spettacoli di grandissima eleganza. Qui in Arena il suo Trovatore è ancora un gran bel vedere, così come la Turandot. Ma con questa Traviata ci lascia un ricordo pallido, qualcosa che non avremmo voluto vedere. L’impianto scenico è costituito da una scena su due livelli, una gigantesca casa delle bambole di vittoriana memoria: al piano sotto un salone traboccante di ori e specchi, al piano di sopra l’appartamento privato di Violetta con la camera da letto e il boudoir. Ai lati di questa ingombrantissima scena, coperta da massicci tendaggi durante il preludio, due sezioni di palchetti di un qualche teatro d’opera — il Palais Garnier, data l’ambientazione parigina? — di dubbia utilità. Unica idea, non peregrina e vagamente cinematografica, il ribaltamento della vicenda cominciando dal funerale di Violetta, con il feretro caricato su una carrozza che attraversa il proscenio, il prete che pronuncia le formule di rito in latino e poche comparse al seguito. Poi tutto cade nel bozzettistico, se va bene, nel kitsch e nel raffazzonato per gran parte dello spettacolo. Con un apice in negativo nella festa in casa di Flora, dove è talmente tanta la folla e il disordine tanto incontenibile che se ne ricava un senso di stucchevole sazietà: ballerini, toreri, sonagli, camerieri con lussureggianti portate, giocolieri, trampolieri, personaggi in maschera, tutti lasciati in balia di sé stessi, mancando una mano sicura che potesse guidarli.
Se scene e regia, pur applaudite a più riprese dal pubblico areniano, lasciavano assai perplessi, poche le soddisfazioni anche dalle parte musicale. E a questo punto viene da chiedersi perché la scelta di due protagonisti così pallidi e inadatti alla prova. Aleksandra Kurzak la si è sentita altre volte in Arena e sempre con scarsa soddisfazione. Nei panni dell’eroina verdiana fa come può: è disinvolta in scena, se ne apprezza la bellezza della figura, ma la voce è quello che è. La scelta di gonfiare i centri per acquistare volume le ha fatto perdere gli acuti che sono sbiancati e raggiunti a fatica. Il mi bemolle finale di “Follie… Sempre libera” è accennato e appeso ad un filo, mentre fuori luogo sono apparsi certi declamati di gusto dubbio. Accanto a lei l’Alfredo scipito del tenore Pavel Petrov, vocina piccola piccola che sembra svolgere con puntualità il compitino assegnatogli senza un’idea che sia una del personaggio. Che sarà, tra quelli verdiani, il più pallido, ma che con maggiore coinvolgimento potrebbe uscire maggiormente vivo. Per non dire della dizione alquanto perfettibile. A chi non mancavano invece idee e presenza scenica era Leo Nucci, che all’età di 77 anni ha tratteggiato, con i brandelli di voce che ancora gli restano, un Giorgio Germont credibile, volitivo e paterno allo stesso tempo. Grandi applausi in suo favore.
Tra i comprimari si sono distinti il Barone Douphol di Gianfranco Montresor, il Gastone di Carlo Bosi e una veterana delle scene come Daniela Mazzuccato nei panni di Annina. A dirigere Daniel Oren, che ha condotto l’orchestra secondo il suo solito. Alternando eccessi sonori a languori e agogiche dilatatissimi, puntando più sull’effetto che su una vera idea interpretativa. Routine, niente di più, mascherata qui e là.
Dispiace che in mondovisione sia andato uno spettacolo come questo: per rendere omaggio al Maestro avrebbe fatto miglior pro trasmettere il suo bellissimo Trovatore con ben’altro cast.
Stefano Pagliantini