VERDI La TraviataA. Blue, C. Isotton, C. Piva, F. Meli, P. Domingo, R. Della Sciucca, C. Finucci, A. Di Matteo, A. Spina, S. Ababkin, J. Martínez; Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, direttore Marco Armiliato regia Liliana Cavani scene Dante Ferretti costumi Gabriella Pescucci
Milano, Teatro alla Scala, 14 marzo 2019
La Scala torna a proporre ancora una volta la Traviata di Liliana Cavani, creata quasi trent’anni fa, nel 1990, per lo spettacolo diretto da Riccardo Muti che segnava il ritorno del titolo verdiano sul palcoscenico scaligero dopo la storica edizione di Visconti con Maria Callas del 1956 – e le tre fugaci recite del 1964 con Mirella Freni (poi Anna Moffo) e Karajan.
Lo spettacolo della Cavani all’epoca piacque più per l’eleganza e lo sfarzo scenografico che per idee di qualche sorta. Dal punto di vista visivo è uno spettacolo di grande impatto, caratterizzato dalla scenografia sontuosa, tutta velluti, cristalli ori e crinoline, creata da Dante Ferretti, e dai costumi eleganti di Gabriella Pescucci; il tutto avvolto in una cornice lussuosa, cui si aggiungono le brutte coreografie firmate da Micha Van Hoecke. Oggi è davvero improponibile, ma al grande pubblico continua a piacere. E la Scala, come fanno certi teatri di area austro-tedesca con spettacoli ormai vecchi ma ancora “funzionanti”, continua a riproporlo. Cui prodest? Sicuramente alle casse del teatro, ma non alla grandezza del titolo, moderno quant’altri mai tra i melodrammi verdiani.
Dopo le nove rappresentazioni dirette da Myung-Whun Chung tra gennaio e febbraio, ecco a marzo tre ulteriori recite straordinarie che hanno segnato il debutto scaligero di Marco Armiliato e il ritorno del soprano californiano Angel Blue, di Francesco Meli e del grande “vecchio” Plácido Domingo (78 anni, almeno ufficialmente).
E proprio dalla sua bocca, ma soprattutto dal magnetismo della sua presenza, si sono sentite le cose migliori: è bastato il suo incedere in scena, nel duetto con Violetta del secondo atto, perché il personaggio fosse bell’e fatto. Un vecchio elegante, volitivo, deciso nel suo voler allontanare una donna indegna di suo figlio e della sua famiglia, ma anche profondamente umano nel rimorso. Gesti misurati, ma pregnanti, la bellezza della figura e un canto sorvegliato, da tenore prestato alla corda baritonale, dai fiati un po’ corti ma efficacissimo nella dizione. Il pubblico, traboccante di affetto per il vecchio glorioso Placido, alla fine della recita gli tributa lanci di fiori e la standing ovation.
Di grande livello anche la prestazione di Francesco Meli, che cerca sfumature inedite, alleggerendo, trovando mezze voci carezzevoli ma anche voce piena e carattere corrusco nella grande scena del festa in casa di Flora. Per una volta Alfredo ci pare un personaggio convincente, e non il solito giovanottone un po’ sciocco.
Angel Blue, già esibitasi alla Scala tra 2015 e 2016 in Porgy and Bess (Clara) e La bohème (Musetta), ha mostrato di avere molte frecce al suo arco: una bellezza fuori dal comune, una figura scenica imponente – anche per l’altezza superiore a quella dei suoi partner maschili, ma poco a che fare con un personaggio sfaccettato e complesso come quello di Violetta. Canta tutte le note, le agilità del primo atto sono ben risolte, gli acuti tendenzialmente cantati tutti forti, ma latita il personaggio: che Violetta è quella del soprano californiano? Risolta solo in virtù di una voce di morbido velluto, specie nel registro centrale, con gravi ben appoggiati, acuti svettanti, ma dà l’impressione di sprizzare salute da tutti i pori, anche quando nell’ultima scena si sforza di mostrarsi morente, affetta da una tosse esibita con eccessivo – e, per questo, a tratti ridicolo – realismo. Pensiamo siano altre le parti che si addicono alla sua vocalità e alla sua attuale maturazione d’interprete.
Tra gli altri cantanti si sono distinti l’autorevole Alessandro Spina (Dottor Grenvil), la commossa Annina di Caterina Piva e la Flora molto generosa di Chiara Isotton.
Non particolarmente brillante la prova direttoriale di Marco Armiliato, che dirige con mano sicura ma senza cavare dall’Orchestra del Teatro alla Scala, evidentemente affaticata dalle contemporanee recite della Chovanščina di Musorgskij, una prestazione particolarmente efficace. Tendenzialmente monocorde, avari gli scarti dinamici, positiva soprattutto la capacità di assecondare i cantanti e di offrire loro un sostegno sicuro. I due preludi si distinguevano per la ricerca di sonorità contenute ed intime, ma alla fine non riuscivano a trasmettere vere emozioni.
Stefano Pagliantini