VERDI Don Carlo M. Pertusi, P. Lardizzone, A. Pirozzi, E. Petti, R. Chikviladze, A. Pellegrini, T. Romano, M. Antenucci, A. Galli; Coro Lirico di Modena, Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini, direttore Jordi Bernàcer regia Joseph Franconi-Lee scene e costumi Alessandro Ciammarughi
Piacenza, Teatro Municipale, 12 novembre 2023
Di Don Carlo, in questi mesi, non si sente sicuramente la mancanza, quanto meno nell’Italia settentrionale: da adesso a fine anno, non senza qualche sovrapposizione di data, si contano ‒ oltre al presente spettacolo emiliano che coinvolge Modena, Piacenza, Reggio Emilia e Rimini ‒ la produzione di OperaLombardia che girerà tra Pavia, Cremona, Brescia e Como; l’inaugurazione della stagione monegasca; e, ciò che sanno tutti, il 7 dicembre della Scala. Certo, manca un po’ di varietà, che pure lo stesso titolo consentirebbe: ovunque si ascolterà la versione italiana in quattro atti del 1884. Sarebbe decisamente auspicabile che qualcuno proponesse l’originale francese; ma probabilmente dovrebbero pensarci le istituzioni più grandi, e non ci si può lamentare della scelta dei teatri emiliani, che, anzi, hanno già fatto qualcosa al limite delle proprie possibilità. È proprio quella sensazione di “vorrei ma non posso” a far capolino qua e là nel corso della recita piacentina, e in particolare nel finale del II atto, quadro che, specie quando lo si realizzi in forme tradizionali, necessita di un grande dispiego di masse, tra coristi e figuranti: in questo caso il Coro era a ranghi troppo ridotti per suddividersi efficacemente in sezioni, i deputati fiamminghi quattro anziché sei, i figuranti troppo pochi per non sembrare spaesati in quella che dovrebbe essere una grande scena di massa. Per il resto, tra costumi storici e fondali dipinti, il colpo d’occhio è sempre assicurato e alcuni semplici stratagemmi (come quello che consente di vedere l’esterno e l’interno della cattedrale di Nostra Signora d’Atocha) non mancano di produrre il loro effetto. Lo spettacolo firmato da Joseph Franconi-Lee ha insomma tutto quanto ci si può aspettare dalla definizione di “regia tradizionale”, compresi alcuni tocchi d’ingenuità che lasciano un po’ perplessi gli occhi più attenti e possono essere tacciati di superficialità; ma non è bene contestare un allestimento che, quanto meno, assolve più che dignitosamente alla sua funzione illustrativa, tanto più che diversi neofiti, a quanto si è potuto sentire dai commenti, ne sono stati entusiasti. Qualcosa di simile si può affermare per ciò che si ascolta dalla buca d’orchestra: non giungono finezze memorabili, e dalla mano del direttore Jordi Bernàcer non si percepiscono particolari colpi d’ala, ma tutto funziona perché gli interpreti sul palcoscenico si trovino a proprio agio.
E i solisti sono indubbiamente l’elemento di maggior pregio della produzione, perché i teatri emiliani hanno saputo comporre un cast degno delle maggiori sale internazionali. Il tenore Piero Pretti è stato sostituito, causa indisposizione, da Paolo Lardizzone: se il timbro non è ammaliante e la tecnica ancora un po’ acerba ‒ specie per ciò che concerne la scaltrezza espressiva ‒, la correttezza, la fibra robusta e lo squillo nitido gli hanno permesso di rivestire onestamente l’impervio e tormentato ruolo protagonistico. E del resto si sa che, benché protagonista, Don Carlo finisce spesso per essere la figura cui in quest’opera si presta meno attenzione e si tributano meno applausi: un ruolo, oltre che impervio, ingrato. Maggiore successo arride solitamente al Marchese di Posa, se non altro per la magnifica aria con cui muore in scena, nella quale il baritono Ernesto Petti ha sfoggiato grande classe, coronando una performance che era iniziata con qualche perplessità sul fraseggio del primo duetto, ma si era subito elevata nella ripresa a mezza voce dello stesso duetto, nel savoir-faire del suo dialogo con la principessa Eboli e nella fermezza del suo confronto con il Re. Un simile percorso in crescendo si è apprezzato anche da parte della Eboli di Teresa Romano: la canzone del velo è stata valorizzata nei centri, ma un po’ sbiadita nelle estremità, perdendo di quel mordente che dovrebbe farne più che un semplice pezzo di colore; ma subito dopo è iniziata una curata costruzione del personaggio (il cui carattere si evolve nel corso degli atti), che si è manifestata appieno nella prima scena del II atto, dove il mezzosoprano ha avuto agio di sviluppare la tavolozza cromatica stendendo le tinte dell’apprensione, della rabbia e dello scherno. Particolarmente espressivo «O don fatale», intonato con voce pesata e timbrata su tutta l’estensione. L’Elisabetta di Anna Pirozzi si è distinta ‒ in un ruolo diverso rispetto a quelli drammatici d’agilità per i quali il soprano è più celebre ‒ per l’intensa partecipazione emotiva saldamente fusa a una lettura correttamente intimista e composta, come si addice a una regina ligia ai propri doveri ma non dimentica né della propria dignità né dei propri sentimenti. Venendo alle voci più gravi, l’Inquisitore di Ramaz Chikviladze è dotato di quella stabilitas che si attaglia al suo ruolo, ma tendeva a spegnersi nel piano, rischiando di perdere il tratto inflessibile che lo deve caratterizzare. Il Frate di Andrea Pellegrini ha ben espresso nel finale quel tono fatale che nella scena d’apertura gli era mancato. Se gli applausi sono stati copiosi per tutti, trionfatore assoluto della recita ‒ comprese richieste di bis, comprensibilmente ignorate, dopo l’aria principale ‒, è stato il Filippo II di Michele Pertusi. La sua interpretazione si fonda su una tecnica ferrea che, partendo da uno strumento per sua natura chiaro, sa generare, senza alcuno sforzo percepibile, una voce pesata e imponente che si addice alla statura regale; e su una lettura scavata della partitura che si manifesta in un fraseggio nobile e tornito e in scelte coraggiose ma mai azzardate, come il «Ti guarda!» quasi afono al termine del duetto con Rodrigo. «Ella giammai m’amò», magistralmente cesellata, è risuonata come una meditazione profondamente umana che mette in luce le contraddizioni interiori dell’uomo di potere. Non stupisce che, a breve distanza dalla recita piacentina, sia giunta la notizia che Pertusi vestirà i panni di Filippo II anche a Milano la sera di Sant’Ambrogio.
Marco Leo
VERDI Don Carlo P. Pretti, A. Pirozzi, M. Pertusi, E. Petti, T. Romano, R. Chikviladze, A. Pellegrini, M. Antenucci, A. Galli; Coro Lirico di Modena, Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini, direttore Jordi Bernácer regia Joseph Franconi-Lee scene e costumi Alessandro Ciammarughi
Reggio Emilia, Teatro Municipale “Romolo Valli”, 17 novembre 2023
All’alba del 2001, in piena volata finale in vista del Festival Verdiano del centenario (indecente non meno nella fase preparatoria – frettolosa, abborracciata, poverissima di idee, al tutto priva di un progetto che potesse dirsi tale – che negli esiti finali, fischiatissimi dal pubblico, immonda nel clima di terrorismo politico che l’accompagnò dall’inizio per far fronte alle tante, argomentate voci dissonanti nel coro che da sùbito s’erano levate da ogni parte che non fosse interessata al soldo, proprio per l’insussistenza di un progetto artistico, critico ed etico: piovvero miliardi, ancora di lire, e non si è mai saputo bene che fine facessero, in tanta miseria di risultato), in quelle turbolenti ritorte, marzio pieri fece uscire un libello, che lui stesso disse intriso nell’atrabile, “Impopolarità di Verdi”. Se ne può riassumere l’essenza in una frase condensata, presa dal libro: «Sognano un’Aida senza elefanti, un Trovatore senza l’entusiasmo, una nazione senza popolo e senza storia. Un Verdi come “bene culturale”, come una pianta esotica guardata in una serra».
I venti e più anni passati da allora non hanno saputo offrire una smentita a quella amara presa di coscienza, anzi semmai l’hanno troppe volte rafforzata, alla riprova di allestimenti ed esecuzioni che hanno potuto dirsi “verdiani” solo per l’intestazione d’autore. Questo Don Carlo – che dopo Modena e Piacenza, è transitato da Reggio Emilia – ne è stato l’ennesima verifica, nonostante alcuni eccezionali atouts che, però, permettono soltanto di vedere il bicchiere vuoto a mezzo, anziché deserto. Da sotto i marmi equestri dell’imperatore Carlo V si stacca una figura di frate che ci ammonisce con educato timbro tenorile (ma non era un basso?) — Entra in scena, smunto, nevrotico il protagonista e – educatissimo pure lui – lo diresti lo “sposlèn” della Lucia donizettiana: “Io la vidi… per poco fra le tenebre…”? Povero Pretti, ma cosa gli si potrebbe rimproverare, più che di non averci la voce “giusta”: canta bene, il Pretti, e quando poteva sfogare verso l’alto, la voce squillava e prendeva corpo, illuminandosi; e faceva quasi tenerezza, il bravo tenore, nei suoi slanci verso quelle impervie ma a lui più naturalmente ospitali vette della scrittura: mancava, però, anche in quei casi, lo scarto nervoso del “vero” fraseggio verdiano (che non è una chimera, un’invenzione astratta dei critici post factum). Il cantante parve, tutta la sera, all’inseguimento di una parte sfuggente e troppo larga per lui, un ruolo complicato del quale seppe esporre la fragilità, non la nevrotica avventatezza che quella accompagna. — Quando al tenore, dopo la sua romanza, si affianca il baritono, al confronto di quella zanzara sembra l’orco mangiafoco, e l’accostamento non è felice né per il tenore (che letteralmente scompare, mercé, anche gli strombazzamenti a tutti flicorni del gramissimo direttore Bernácer, che sovrasterebbero ben altre “canne”: “Dio che nell’alma infondere”, il patto solenne d’amicizia tra Carlo e Rodrigo, svaccato a tempo di marcia dei bersaglieri), né per il baritono, esposto soprattutto in certa sua fonazione “ingolfata”. La quale, nel prosieguo dell’opera, scaldandosi la voce, scemerà fino a scomparire, nella trionfale “Morte di Rodrigo”: dove Enrico Petti è riuscito nel virtuosismo di coniugare l’intelligenza di fraseggiatore perplesso di un Bruson, al quale il baritono campano sembrerebbe ispirarsi (indimenticabili certe recite parmigiane del 1981, ove il baritono veneto era galvanizzato dalla presenza di un Boris Christoff triste, solitario y final, ma imperioso come non mai), alla forza espressiva del canto d’un Cappuccilli in stato di grazia, nelle recite salisburghesi con Karajan (il baritono campano sa replicare, di Cappuccilli, anche certe sbalorditive apnee su interminabili archi di frase). Petti, fin dall’insidiosa romanza del second’atto (“Carlo ch’è sol il nostro core”) mostra una rara sensibilità per la parola scenica verdiana, di cui tanto si parla ma che così difficilmente troviamo messa in atto da cantanti scolastici e solfeggianti oggi in auge, ed è forse il primo baritono a cogliere l’ironia maliziosa di una battuta finto neutra quale “D’un gran torneo si parla già, e del torneo il Re sarà”: quel torneo – organizzato per festeggiare le nozze della figlia Elisabetta col nemico Filippo – nel quale Enrico II di Francia fu mortalmente ferito — Che, in un’opera d’intrighi e di spie, dove nessuno appare per ciò che realmente è, Posa volesse comunicare all’“amante del re” la riuscita della sua missione… diplomatica?
Teresa Romano (Eboli) si presenta in scena urlacchiando una Canzone del velo che ci ha riproposto, nei modi e nel gusto di un canto faticoso e sguaiato, il simulacro che speravamo per sempre abbattuto d’una Fedora Barbieri. E da lì non s’è scostata. Eppure i mezzi non mancherebbero, ma serviva un concertatore che la guidasse, ma qui ognuno era abbandonato a se stesso.
Che Verdi, è forza chiedersi a questo punto, avevano in mente gli organizzatori, quale Don Carlo intendevano proporre regista e direttore d’orchestra? Le brutte interviste riportate sul programma di sala rivelano, in entrambi, una desolante mancanza di idee. Il direttore si mostra distratto da quanto accade in palcoscenico, tiene l’orchestra sempre troppo alta e baccanosa, incurante dei “colori” e solo si preoccupa di effetti estemporanei, perlopiù dall’esito bombastico e quasi ridicolo. Il regista se la cava, a chiacchiere, con la retorica, nei fatti optando per una di quelle che Lorenzo Arruga chiamava “non-regìe”. Unica intuizione degna di qualche riflessione è la suggestione “musorgskiana” – traverso gli ori luccicanti di morte a corona della grandiosità “finta” e funerea nell’autodafé (e di altri quadri) – di un diverso Boris Godunov, figura di principe dispotico e tormentato fino all’autodistruzione, non poi troppo dissimile dal Filippo II verdiano: il quadro, coi suoi roghi, i penitenti, l’umiliazione di popolo, costretto a plaudire a colpi di frusta quando non avrebbe che lacrime per piangere, s’intona con l’incoronazione di Boris (e sorvoliamo pure sul fatto, non qui rilevante, che il Boris segue, nella prima inedita versione, di due anni il grand-opéra verdiano). Sorvoliamo pure – benché meno irrilevanti – su certe “sciocchezze” (che ai registi d’opera paiono davvero irresistibili), quali trasformare i nobili Deputati fiamminghi che si presentano a perorar la causa del Brabante dinanzi al re in mendìchi straccioni, lo scatenare guardie armate contro Carlo, mentre il Re furibondo lamenta che nessuno si sia mosso al suo ordine di disarmare il figlio ribelle, l’uccisione di Posa da parte d’un frate-sicario (ma “la vendetta del re”?), o altre controscenette anti-musicali (nel senso che non c’entrano o vanno contro la musica del momento). Ma non tacitabile è il vuoto registico durante la marcia (marcia che in tal modo diventa un lungo e insignificante intermezzo bandistico, che il direttore Bernácer rende oltremodo goffo con stacchi di tempo alla Ridolini) che accompagna l’entrata della corte e dei prelati in quel medesimo quadro che – secondo le dichiarazioni – avrebbe dovuto essere, anche dal punto di vista registico, la scena cardine dell’opera e non vi accade, invece, nulla. E imperdonabile l’aver messo Filippo in camicione e vestaglia nel momento culmine della tragedia.
Il Re è nudo? Peggio in mutande! “Ella giammai m’amò”, sembra il lamento d’uno cui, al momento buono, gli aveva fatto cilecca, invece che il delirio semicosciente d’un re che s’è consumato in preghiera l’intera notte, tormentato dal dubbio se, come padre, perdonare il figlio ribellatosi all’autorità, o come monarca dare il più terribile degli esempî decretandone la morte: dubbio che lo spinge a convocare presso di sé la sua nemesi, l’Inquisitore detentore del potere clericale, contrappeso gravosissimo a quello politico del re. E gli si mostrerebbe così, completamente indifeso? Non è il Filippo incarnato da Pertusi. Faremo, dunque, una colpa al grande basso di non essersi conformato al regista quando ha superbamente inverato le prescrizioni del compositore?
Pertusi è un Filippo II, per certi versi, di stazza minore (se per maggiore si assume quella irripetibile dei Siepi e dei Christoff, dei Raimondi o del più statuario ma torrenziale Ghiaurov); un poco sulla linea, un tempo assai apprezzata da critici e pubblico, del re “debole” incarnato da Rossi-Lemeni. Come l’insigne basso bulgaro, ‘scenicamente’ rifinitissimo, l’artista parmigiano dà forma e dà vita ad un personaggio (un personaggio vero, o “figurale” – come lo definiva m.p. nel succitato libello –, col «suo peso anche non poetico»), di eccezionale vigore espressivo, in felicissimo contrasto con l’ostentata stanchezza dell’incedere, appoggiato al reale bastone, dell’uomo. Nero vestito, quando entra in scena Pertusi/Filippo fa subito paura. Non ha bisogno di gonfiare le gote per punire – con l’esilio della Aremberg – la regina fresca di sposalizio: la regina egli offende? Lui è il re, può. Nessuno, d’altronde, osa fiatare. L’inquieto silenzio è rotto dal “Restate!” che Filippo stesso impone a Posa. Perfino Christoff, il più ‘cattivo’ dei Filippi II, intonava quella parola come fosse un invito. Pertusi ne dà un ordine perentorio; ed anche la domanda che segue (“Presso della mia persona/ perché d’esser ammesso voi non chiedeste ancor?”) non suona un rimprovero tutto sommato cordiale, ma l’interrogatorio minaccioso d’un suddito da parte del suo re. Sarà la divisa del Philippe deux secondo Pertusi (a parer mio, per quel che conta, la sua incarnazione più matura, finora), il quale intona ogni parola secondo il gesto scenico del momento: che Filippo declami un’invettiva, sussurri un consiglio, carezzi, come accade con l’Inquisitore, una proposta di pace o canti disteso il suo sonno agitato, le sue magnifiche frasi melodiche nel quartetto, è l’azione dell’attore a determinarne la dizione, il colore, l’intensità, l’espressione musicale. Per questo quel re non può esser mostrato in déshabillé: ha sempre la corazza. E la forza fisica di portarla: quando serve, Pertusi cava note da standing ovation, come il fa acuto di “dunque il trono” – squillante comme il faut – o il contro fa “sparafucilesco” che, emesso da un cantante divenuto famoso grazie alla sua agilità “rossiniana”, tanto timbrato corposo, lunghissimo (Rossi-Lemeni lo toccava appena), dà una scossa “nervosa” straordinariamente emozionante.
La corrispondenza tra gesto scenico e “gesto” vocale è ciò che manca, invece, ad Anna Pirozzi, il cui acting, essenziale, un poco generico, è esso, semmai, determinato dalla nota. Il che non va visto necessariamente come un limite, almeno nel caso di Elisabetta: perché Filippo (e Posa, Eboli, l’Inquisitore, perfino Carlo, con la sua inane nevroticità) sono tutti prim’attori (cioè agiscono), Elisabetta è vittima (di ciascuno di loro, a diverso titolo) e subisce. Perfino quando deve essere lei a fare la prima mossa, come nel caso del furto dello scrigno, essa è vittima, perché la protesta necessaria, inevitabile della regina per l’oltraggio subito, la espone (e non è una sorpresa) all’evidenza delle sue colpe: situazione che prefigura, in qualche modo, il caso d’Oscar Wilde quando, insultato dal Queensberry, non poté evitare di citare in giudizio il padre di “Bosie” che non aspettava altro e gli ritorse contro la denuncia per omosessualità (un reato nell’Inghilterra vittoriana, e anche dopo), con quel che tutti sanno.
Solo quando Eboli confessa l’adulterio con Filippo, Elisabetta prende finalmente piena coscienza di sé, della sua regalità. Frasi recitative come “rendetemi la croce”, eccetera, son dette dalla Pirozzi con una intelligenza profonda non solo del testo, ma anche del sostrato ‘politico’ della frase e scuotono l’ascoltatore quanto gli involi a fior di labbro o a voce spiegata di cui è generosa la parte di Elisabetta e che la cantante realizza tutte con bravura.
E sarà lei, la Regina, al quint’atto, morto il sobillatore Posa e messa fori gioco – a contrappeso di fortuna – la “cornificatrice” Eboli, a farsi parte diligente, nel tentativo di salvare Carlo disinnescandolo. Ma è troppo tardi, re ed inquisitore non mollano la preda, le prede (“Io voglio un doppio sagrifizio!”), ed ognuno irrompe – inconciliati potenti (o forse, non più conciliabili poteri) – co’ sgherri suoi: solo l’ultraterreno salverà (forse, per il momento) la regina. Filippo/Pertusi libera il suo fenomenale fa diesis, Anna Pirozzi lo imprigiona con un si naturale dallo squillo argenteo, travolgente (eppure così fragile nella sua espressione), che si sublima in una prodigiosa lunghezza di inesauribile sonorità.
Sono simili emozioni, date da artisti come questi inarresi di fronte alla retorica impopolare (“superlativo” di inattuale) del melodramma e confidenti nell’emotività semplice ma schietta innescata dal canto lirico che essi rinnovano di sera in sera, a dirci che l’opera – nonostante tutto – non muore e che, forse (non ora), anche Verdi potrà tornare a essere “popolare”.
Bernardo Pieri
foto: Rolando Paolo Guerzoni