MOZART Don Giovanni C. Alvarez, M. Vinco, M. Ryssov , T. Mužek , B. Pizzuti, R Ignacio. M. Kovalevska, B. Bargnesi. Orchestra e Coro del Teatro Massimo, direttore Stefano Ranzani. Regia, Lorenzo Amato. Scene, Angelo Canu. Costumi, Marja Hoffmann
Palermo, Teatro Massimo, 16 maggio 2014
Il «Don Giovanni» che ha debuttato al Massimo di Palermo il 16 maggio si pone nel filone di recenti messe in scene alla Scala e ad Aix-en-Provence in cui il lavoro di Da Ponte e Mozart non sembra più un «dramma giocoso» ma una tragedia esistenziale nella quale l’elemento drammatico prevale sugli aspetti comici o ironici. Un saggio, ormai classico, di Lidia Bramani ci ricorda che proprio in quel periodo il «cattolico, massone e rivoluzionario» Mozart stava attraversando una grave crisi relativa al significato del suo lavoro e della sua stessa esistenza.
Il regista Lorenzo Amato e il direttore Stefano Ranzani hanno presentato l’opera come una tragedia atemporale ed universale. La scena unica — girevole — è un’esedra, e l’attrezzeria molto semplice (un labirinto di siepi, una serie di panchine). I costumi sono contemporanei, tranne che per Don Giovanni e Leporello, i quali risultano avvolti dalla nebbia anche nelle sequenze alla luce del giorno: il grigio, infatti, è il colore dominante. Ad esso fanno contrasto costumi sgargianti, specialmente quelli femminili, nella festa del primo atto. In questo contesto ha luogo una parabola della solitudine e dell’angoscia di un Don Giovanni privo di valori che fallisce i suoi tentativi di conquistare donne nell’ultima giornata della sua avventura umana e che sceglie consapevolmente la morte.
Sin dall’incipit dell’ouverture, si avverte la piena sintonia tra drammaturgia e direzione musicale. La bacchetta di Ranzani, allievo di Gavazzeni, è pesante (a volte anche un po’ troppo), i tempi sono serrati, le dissonanze enfatizzate. Una lettura che rinforza la visione pessimistica che domina la scena, dove la festa del finale del primo atto sembra un party di giovani palermitani al termine del quale restano tutti insoddisfatti (come in quello brianzolo de «La Notte» di Antonioni).
Mentre era di buon livello il coro diretto da Piero Monti, gli interpreti vocali, molto ben addestrati registicamente, non erano tutti vocalmente all’altezza. Ottimi Carlos Alvarez (il protagonista), Marco Vinco (Leporello), e Michail Ryssov (il Commendatore): tre professionisti di lungo corso. Alvarez ha interpretato la parte oltre cento volte e ha cesellato il personaggio per essere in linea con le esigenze della regia. Pure Vinco ha interpretato Leporello decine di volte; a lui la regia non richiede un adattamento particolare poiché rappresenta il principale elemento di comicità (tale, però, da accentuare ulteriormente l’interpretazione tragica) in scena. Michail Ryssov è un basso profondo che ha mostrato qui una perfetta dizione, un buon fraseggio, e un volume capace di avvolgere il grande auditorio del Massimo.
Validi Maija Kovalevska (Donna Elvira), Barbara Bargnesi (Zerlina) e Biagio Pizzuti (Masetto): voci giovani e fresche, ben intonate. Delizioso il duetto tra Zerlina e Masetto e ben articolata la difficile aria di sortita di Donna Elvira.
Hanno palesato problemi di dizione e di emissione, almeno alla prima rappresentazione, Rocio Ignacio (Donna Anna) e Tomislav Mužek (Don Ottavio). La prima è un soprano lirico che ha avuto successo anche in ruoli di coloratura, mentre ci sarebbe voluta in questa lettura dell’opera uno strumento di maggiore spessore; la dizione lasciava a desiderare, il fraseggio pure. Mužek è un tenore croato che da alcuni anni ha lasciato i ruolo lirici per affrontare anche Wagner. In costume da dandy, questo Don Ottavio mostrato una voce brunita ma è sembrato inizialmente a disagio nella linea mozartiana, salvo riprendersi un poco nell’aria del secondo atto.
Giuseppe Pennisi
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