VERDI Un ballo in maschera R. Aronica/C. Albelo, L. Salsi/Seung-Gi Jung, C. Giannattasio/S. Branchini, A. Smimmero/A. Boldyreva, A. M. Sarri; Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Napoli, direttore Donato Renzetti regia Leo Muscato scene Federica Parolini costumi Silvia Aymonino luci Alessandro Verazzi
Napoli, Teatro di San Carlo, 26 e 27 febbraio 2019
Tutti tranquilli, nessun beffato. Un ballo in maschera, in scena in questi giorni al Teatro San Carlo di Napoli è l’opera che ci si aspetta di vedere, senza alcuna variazione significativa, né trasposizione temporale che non sia quella di tre o quattro nomi diversi. Riccardo conte di Warwick è qui, nell’originale pre censura, re Gustavo di Svezia; Renato assume l’impronunciabile (e mai menzionato) nome di Anckarström; Sam e Tom diventano rispettivamente il Conte di Horn e il Conte di Huibbing; Silvano diventa Christian il marinaio e la trasposizione di tempo è talmente lieve da non cambiare di molto costumi e altro. Considerando che Renato, qui Carlo duca di Anckarström, l’amico più fidato e potente del Re è un creolo, che il Re Gustavo è un sovrano «illuminato, amante delle arti e gran mecenate amatissimo dal popolo», si può ragionevolmente pensare che Leo Muscato, responsabile dello spettacolo, porti in scena il periodo illuminista alternativo all’oggi, in cui i re son guerrafondai e i vari parlamentari europei ignoranti e disumani senza dignità.
La coproduzione del Teatro dell’Opera di Roma con Malmö Opera, riporta la vicenda come originariamente concepita in Svezia, ma che si svolga lì, o in Cornovaglia, un re s’innamora della moglie del suo migliore amico che lo uccide per gelosia, unico intreccio di sentimenti che pervade l’intero dramma. Che diventerà alla fine, con l’integrità totale della dama e la rinuncia consapevole all’amor fedifrago, un dramma con le spiccate sembianze di un’opera morale, dove il re morirà perdonando tutti, l’amicizia assurgerà a sentimento nobile inviolabile e la morte risponderà soltanto alle capacità predittive di una maga che ci vedeva più lungo di tutti.
Tutto cambi, insomma, perché nulla cambi, dev’essersi detto Muscato. E nulla è cambiato. Regia attenta alle vicende intime dei protagonisti e lontana dagli affari di guerra, il focus è costantemente sulla vicenda affettiva, scavata da interpreti ben preparati e particolarmente empatici nella prima delle due differenti composizioni del cast descritti qui.
A rendersi ampiamente complice del pubblico, martedì sera, 26 febbraio, il cast con Celso Albelo e Agostina Smimmero, re Gustavo e Ulrica l’indovina; Luca Salsi e Susanna Branchini, Anckarström e Amelia.
Già a partire dalle note introduttive della sinfonia, cui Muscato ha affiancato una scena pastorale in cui i due amici giocano alla scherma assieme sotto lo sguardo divertito della moglie e del bambino, si avverte una contagiosa partecipazione alla narrazione, che proseguirà per l’intero spettacolo senza mai sciogliersi.
Vero è che Un ballo in maschera è uno dei melodrammi più a lieto fine che si conoscano, nonostante la morte del re. Come è vero che quel sorriso stampato sugli spettatori all’uscita è il risultato di una prova magistrale e coesa dell’intero cast.
Susanna Branchini è stata una buona Amalia. Le note ci sono tutte, la personalità anche, le physique du rôle le appartiene interamente. La Franchini ha voce ben timbrata e capace di emergere sopra ogni sotteso orchestrale e di dialogare e duettare con qualunque voce. Ma le modulazioni preziose che il canto di Amelia esprime, quelle no, non ci sono. Difficile per lei cantare in pianissimo, difficile per lei prodursi in forcelle (variazioni agogiche in crescendo e poi diminuendo, o viceversa) o in misuratissime smorzate.
A raggiungere l’ottimo, ma forse non ancora l’eccellenza che potrà produrre fra qualche anno, la giovanissima Agostina Smimmero, voce perfettamente omogenea e sempre sostenuta durante l’intera tessitura disegnata per Ulrica, personaggio da mezzosoprano con corde già preparate al registro contraltile. Grave, timbrato e sempre poggiato su un sostegno solidissimo.
Come la Smimmero, nell’ottimo si son collocati Celso Albelo e Luca Salsi, numero uno alla verifica degli applausi. Il tenore canario ha dalla sua una facilità di emissione che fa dimenticare le rare e piccole pecche verificate in un fraseggio sostanzialmente corretto. La sua voce non ha la potenza e lo squillo di altre, ma emissione e fiati son sempre perfetti, tali da favorirne un’invidiabile omogeneità nei registri e l’estrema precisione d’intonazione. Ė bello scrivere e commentare di un canto come il suo, personale quanto facile, duttile.
Luca Salsi è interprete che non lascia mai indifferenti. Il suo canto è sicuro, poggiato, stentoreo quando il ruolo, o meglio il momento, lo richiede. Il personaggio viene così delineato senza incertezze, con contorni netti e carattere sempre intelligibile. L’intonazione pare oscillare un po’ nelle parti dialogiche senza mai tuttavia uscire dal range armonico consentito. È una prova ancora molto convincente la sua e la più applaudita assieme a quella di Agostina Smimmero.
Il fatto è che questi, insieme, questi artisti d’altissimo lignaggio, degni dei più prestigiosi palcoscenici del mondo, beh, questi stupiscono. Non una ma mille volte. Ogni volta riescono in qualcosa di meglio, raffinano la loro intenzione, dialogano con la più apprezzabile naturalezza, interpretano i propri affetti con la commozione misurata alla scena interpretata. E a tutti loro, primo e secondo cast ascoltati (che poi come detto si sono mischiati), vanno aggiunti la bravissima Anna Maria Sarra, voce lirica perfettamente a suo agio nel ruolo en travesti di Oscar, con caratteristiche anche fisico-atletico ammirevoli, e i due cospiratori Tom e Sam, Laurence Maikle e Cristian Saitta, che non hanno sfigurato ma nemmeno brillato, tendendo spesso a camuffare la loro voce naturale gridando il primo, scurendo il secondo e approssimando anche di molto i loro attacchi.
Minori risultati dalla compagine presentata la giornata successiva e con l’alternanza di molti dei pezzi da novanta. A determinare probabilmente il maggior distacco dal pubblico il personaggio di Ulrica, l’indovina, fortemente inadatta al ruolo per mancanza di caratteri drammatici e vocalità lontanissima da quella del contralto, qui indispensabile. La russa Anastasia Boldyreva ha una vocalità a traverso fra il soprano drammatico e il mezzo dalla tessitura alta. Fu grave errore la scelta di un personaggio come questo per lei. A una bellezza algida e quasi perfetta come la sua si affidano volentieri ruoli come Maddalena, Cenerentola, Carmen e finanche Azucena. Tutti ruoli al limite di una pertinenza mezzosopranile (in tessitura alta). Oltre, la Boldyreva emette note vuote, esprime colori sbiaditi scurendo artificialmente, declama frasi che rimangono nel profondo della gola. Peccato anche per la sua manchevole partecipazione emotiva, mai andata oltre alla preoccupazione per un ruolo a lei totalmente inadatto.
Tutte le altre parti hanno permesso la definizione di buono spettacolo anche in questo caso. Ottimo, ma forse eccellente, il Riccardo (pardon, Gustavo), di Roberto Aronica, professionista dalle molte avventure trascorse. La sicurezza, il mestiere e la bellissima voce, gli permettono di presentarsi in palcoscenico con la sicurezza e la raffinatezza raggiungibili da pochi suoi colleghi di eguale lignaggio. Ogni accento, ogni nota corrisponde a Gustavo. Ė re umano e illuminato e lo testimonia con una voce chiara, fresca, sincera. Ė combattuto e innamorato, abbandonato e dignitoso, e colori e accenti s’adeguano ai sentimenti più umani. È uomo ma re, e Aronica lo mostra nella sua sintesi precisa ed espressiva, lucida e descritta in ogni più piccola sfaccettatura. Aronica è uno dei migliori e completi Riccardo dei nostri tempi. Non gli manca più nemmeno la fiducia in se stesso che ne ha, in passato, condizionato qualche altro possibile trionfo.
Nessun dubbio nemmeno sulla bellezza della voce e il mestiere posseduto da Carmen Giannattasio, Amelia. Ma se la Giannattasio non ha da dimostrare nulla, ciò che mi tormenta è invece l’estrema prudenza con cui ha affrontato la recita. Non posso sospettare che la carriera internazionale e la sua ormai acquisita esperienza le permettano di risparmiarsi in un teatro come il San Carlo di Napoli. Mi chiedo quindi se non ci fossero condizioni particolari perché abbia sempre controllato l’emissione, partendo spesso dal basso per raggiungere la nota, o affrontati i filati e le varie modulazioni con lentezza estrema, eccessiva riduzione delle corone e fiati sempre eccessivamente controllati, a evitare ogni possibile inciampo. Maggior confidenza al ruolo e canto più spontaneo e intenso sono doverosi. Il San Carlo e il suo pubblico lo meritano. Da risentire con maggior partecipazione.
Perplessità invece sulla scelta di un baritono orientale, Seung-Gi Jung, che pur dotato di buon timbro e ottimo controllo della voce non aggiunge né toglie nulla a una recita che lo trova sostanzialmente estraneo al gruppo per intensità emotiva e complessità espressiva.
Il Coro del Teatro San Carlo si è ben presentato in entrambe le recite, pur non brillando per compattezza, l’Orchestra dello stesso San Carlo, guidata in maniera troppo incline alla routine da un professionista come Donato Renzetti, è invece apparsa a fuoco e ben coesa. Successo chiarissimo per le recite commentate e spettacolo molto apprezzato che mi auguro possa circolare ancora.
Davide Toschi