BEETHOVEN Egmont, ouverture op. 84; Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60; Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Gustavo Dudamel
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 17 giugno 2019
Di Gustavo Dudamel molto si parla, si discute assai, spesso si dice bene o male, ma in termini generici e più attenti al fenomeno personale che alla sostanza musicale. Assente costui a Roma dal 2013, eravamo curiosi di rivedere, per il concerto conclusivo della stagione ceciliana, il ragazzo che ormai vent’anni fa s’era affacciato con prepotenza alla ribalta internazionale della musica girando il mondo con una sua orchestra di giovani venezuelani, balzando poi veloce sui podi delle maggiori realtà concertistiche o quasi, d’Europa e d’America (Super Bowl e Star Wars, Concerto di Capodanno a Vienna e Concerto per Benedetto XVI in Vaticano, compresi); collezionando dischi, premi, incarichi (ora e da tempo la Los Angeles Philharmonic, ma di lui si parlava anche per i Berliner), tirandosi dietro i deliri di giovani e non giovani: quasi una popstar amata, coccolata, viziata da milioni di fans. E pur con tutto ciò, anche oggetto d’una certa qual condiscendenza, d’una legitima suspicione, se non di understatement da parte della critica togata e d’alcuni ambienti musicali. Un talento eccezionale o un concorrente sopravvalutato e scomodo? L’enfant terrible, ma geniale della direzione d’orchestra d’oggi o solo un campione costruito dallo star system? Oggi, a trentotto anni, la chioma arruffata appena sparsa di bianco, la taille un po’ più pesante nel frac orribile, Dudamel può forse essere oggetto d’un piccolo, fugace bilancio, in specie se a confronto (com’è stato qui a Santa Cecilia) con tre pagine di Beethoven. Ci sia permessa una metafora automobilistica, tirando in ballo tre nomi a caso: Furtwӓngler, Karajan, Kirill Petrenko. Il primo, non c’è dubbio, viaggia in una Rolls-Royce con l’autista (lui legge Novalis e Heidegger), regale, perfetta, superiore al tempo e alle mode; il secondo guida personalmente una Jaguar, rampante, fascinosa, dagli interni in radica di noce e pelle morbidissima; il terzo è al volante d’una Ferrari da corsa, violenta, competitiva, con essa corteggiando forse la morte. E Dudamel? Lui, il venezuelano, cavalca una Harley-Davidson. Portando la musica con sé su quel bolide a due ruote lucente e sfrontato, rombando, fracassando l’aria, in un’esplosione di energia e potenza, in un gusto della vita vissuta, divorata nell’istante, nell’adesso. È implicito che tal formidabile anima, più che non piacere (anzi, suscita clamori e applausi interminabili), possa essere causa d’un “vivere pericolosamente”, d’una sorta di vagabonda “libertà e paura” (già, il sottotitolo italiano di Easy Rider), talora entusiasmante, talora passibile di sbandate in curva. È un estro giovanilistico, il suo, certo: ma vincente e sicuro solo finché si è nei twenties. È una “maniera” doverosamente passibile di aggiornamento, di più pensati approdi, quando si profilano i forties. Altrimenti si rischia di diventare come quegli “harleysti” tardoni e improbabili nei loro eccessi.
Al fatto Dudamel ha iniziato il concerto con un’ouverture dell’Egmont appunto un po’ sbandante e di cui son parse interessargli poco sia la nobilissima, meditativa tragicità, sia la precisione degli attacchi e degli ensemble. Ed ha proseguito con una Quarta sinfonia nella quale (passato l’Adagio-Allegro vivace iniziale), l’affermazione vitalistica del direttore — trattenuta prima, liberata poi — era specchio abbastanza limpido delle istanze del compositore. Tuttavia il bel suono e la cura dei dettagli non erano qui tra le maggiori urgenze. La Settima sinfonia è apparsa ancor meglio a fuoco: era come se Dudamel si fosse “liberato”, come se il gesto (essenziale, ma molto efficace) trovasse nuova forza e convinzioni nuove. Le dinamiche esaltanti, la timbrica infine brillante, una sorta d’ansia sensuale, “cherubiniana” e appunto quella sua indomabile sfrenatezza on the road, hanno riportato alla ribalta il miglior Dudamel. Il cui bilancio, pur restando alla sua età ancora totalmente aperto, andrà prima o poi rinsaldato con un apporto di capitali stabili, con un abitare nell’arte forse meno premiato, ma certo più ragionato. Con un punto e a capo del quale ogni crescita umana ha di tanto in tanto bisogno.
Maurizio Modugno