Kissinger Sommer – Internationales Musikfestival (musiche di Bacewicz, Brahms, Chopin, Čaikovskij, Dvořák, Mendelssohn, Schubert, Schumann, Schnittke e Stravinsky) interpreti vari
Bad Kissingen, Max-Littmann-Saal, Rossini-Saal e Kurtheater, 15, 16 e 17 luglio 2022
Si respira un’aria di altri tempi a Bad Kissingen, l’aria delle località termali della Belle-Époque frequentate da principi e imperatori, in un festival pieno di musica a quasi tutte le ore con concerti al pomeriggio e alla sera, nei teatri e alle terme, colazioni a ritmo di jazz — il jazz elegante e leggero dei giovani Jakob Manz (sassofono) e Johanna Summer (pianoforte) nella sala del Kurgarten Café — e bande di ottoni che suonano all’aperto prima degli appuntamenti più importanti. Il Kissinger Sommer, fondato nel 1986, va però oltre una nostalgica rievocazione dei tempi andati, tempi che in realtà in questa piccola cittadina dell’alta Baviera, con i suoi edifici ottocenteschi e i giardini fioriti di rose, sembrano sopravvivere in una magica illusione: è una parata di grandi stelle del concertismo internazionale ed è anche un’occasione per fare delle sperimentazioni, per certi aspetti sorprendenti nel tradizionalissimo Land tedesco.
Era il caso del concerto-spettacolo della giovane Stegreif.orchester, che iniziava nel foyer in mezzo al pubblico per continuare nell’elegante sala da mille posti in stile neobarocco, con pianta rettangolare e soffitto a cassettoni, costruita tra il 1911 e il 1913 dall’architetto Max Littmann. È stata un’esperienza per così dire immersiva nella musica, tra suggestioni misticheggianti medievali e atmosfere New Age in cui è evidente il modello delle improvvisazioni al sassofono di Jan Garbarek, con i musicisti che rielaboravano e improvvisavano (“Stegreif” si può tradurre all’incirca con “improvvisazione”) su motivi gregoriani e sui temi della Prima sinfonia di Mahler. Se l’orizzonte estetico è un po’ datato, visto che oggi la New Age non è più così tanto “Nuova”, i risultati erano suggestivi, anche perché le sonorità degli strumenti della tradizione classica, archi in primo luogo, erano ben amalgamate con il sassofono e il basso elettrico (a un certo punto si sconfinava apertamente nel rock) e soprattutto perché la musica della Stegreif.orchester diventava teatro, con una vera e propria scenografia ed una sorta di narrazione che il pubblico presente — la sala però era piena solo per un quarto della sua capienza — ha apprezzato.
Più tradizionale ma con una apertura al Novecento è stato invece il concerto pomeridiano del quartetto della violinista Julia Fischer nella adiacente Rossini-Saal, un raffinato spazio da circa 350 posti all’interno della Arkadenbau, costruita nel 1838. Julia Fischer si presentava con il violinista Alexander Sitkovetsky, il violista Nils Mönkemeyer e il violoncellista Friedrich Thiele, il quale in realtà non è l’abituale violoncellista del quartetto. A loro si è aggiunto l’ottimo pianista William Youn, coreano ma tedesco di adozione, un virtuoso di prim’ordine, impeccabile a livello esecutivo e sensibilissimo nel controllo delle dinamiche, ma sempre al servizio dei suoi compagni di avventura. Dopo un’educata e ariosa esecuzione delle Bagatelle di Dvořák l’atmosfera è virata verso le ombre del doloroso Quintetto con pianoforte composto da Alfred Schnittke tra il 1972 e il 1976 nel corso di un lungo processo di rielaborazione del lutto per la perdita della madre, dove Julia Fischer ha fatto il secondo violino. Il clima del brano è fissato subito nelle battute iniziali dal pianoforte con un inciso cromatico di cinque note che fornisce la base strutturale all’intero lavoro, a partire dallo straniato valzer del secondo movimento fino alla conclusione, davvero spettrale, ancora una volta con il pianoforte protagonista nella regione del pianissimo. È stata un’interpretazione di grande intensità, alla quale è seguito il Trio con pianoforte in MI bemolle D 897 di Schubert, che in realtà è un torso di Trio, in un unico Adagio conosciuto come “Notturno”, delineato con dolcezza nell’esposizione dei due temi ma un po’ scomposto nell’episodio centrale. Quindi è arrivato il Quintetto con pianoforte in MI bemolle di Schumann, anche in questo caso affrontato con slancio più che con l’attenzione ai dettagli e con qualche scompenso di troppo nell’insieme, dovuto anche al fatto che il violoncello restava sempre molto in ombra.
Ben diverso era il taglio dell’altro concerto cameristico pomeridiano a cui abbiamo assistito, nel delizioso Kurtheater (una sala da cinquecento posti anch’essa progettata da Max Littmann, sempre in stile neobarocco, nel 1904) con il brillante Schumann Quartett dei fratelli Erik, Ken (violini) e Mark Schumann (violoncello) e del violista Veit Hertenstein, entrato nella formazione lo scorso febbraio in sostituzione di Liisa Randalu, e soprattutto con la voce recitante dell’attrice Martina Gedeck, che è stata la protagonista femminile del film Le vite degli altri ma che in Germania è nota anche per aver interpretato il ruolo di Clara Schumann nel film Geliebte Clara. E proprio dalle lettere di Clara e di Robert Schumann erano tratti passi recitati tra un brano e l’altro del concerto, aperto dallo “Scherzo” dal Quartetto n. 1 di Schumann e chiuso dall’esecuzione dell’intero Quartetto in SI bemolle n. 3 di Brahms, con in mezzo la “Canzonetta” dal Quartetto in LA n. 1 di Mendelssohn e un’altra pagina schumanniana, l’“Adagio molto” dal Quartetto in LA n. 3.
Se la voce di Martina Gedeck a volte si perdeva volutamente in mormorio dolce, quasi come se la parola cercasse di essere essa stessa musica, l’approccio dello Schumann Quartett era invece spavaldo, in virtù di un’ottima tecnica, della facilità esecutiva e della perfetta intesa tra i tre fratelli, un’intesa nella quale la viola di Veit Hertenstein si inseriva con assoluta naturalezza (suonano praticamente senza guardarsi). Come risultato abbiamo avuto interpretazioni estremamente vitali ma curate nei dettagli, all’insegna di un vigore strumentale in cui però era ben chiaro l’intreccio dialogico tra gli strumenti e nel quale si aprivano, a sorpresa, momenti di fascinosa leggerezza, come nella fuga in chiusura della “Canzonetta” mendelssohniana, e momenti di intensa cantabilità, come nell’“Adagio molto” dal Quartetto n. 3 di Schumann.
Grandi emozioni sono arrivate con i concerti serali nella Max-Littmann-Saal, che ricorda un po’ nelle forme la Sala del Kulturzentrum di Dobbiaco, con due dei pianisti oggi più in vista sulle scene internazionali, Daniil Trifonov con la Deutsche Kammerphilharmonie Bremen diretta da Ruth Reinhardt e Jan Lisiecki con i Bamberger Symphoniker, diretti da Krzysztof Urbański.
Del Concerto per pianoforte in re n. 1 di Brahms, Trifonov ha dato un’interpretazione ombrosa e sofferta, di grande intensità drammatica, e la trentaquattrenne Ruth Reinhardt, che nella Terza sinfonia di Schumann ha diretto un po’ sopra le righe, senza riuscire a trovare l’equilibrio tra le sezioni e lasciando praticamente i primi violini sotto il controllo dell’esuberante spalla dell’orchestra, ha avuto l’accortezza di lasciargli tutto lo spazio di cui aveva bisogno, tutti i respiri e le esitazioni. Trifonov può esibire un pedigree da gran virtuoso (tra il 2010 e il 2011 terzo Premio al Concorso Chopin di Varsavia, primo Premio al Concorso Rubinstein di Tel Aviv e primo Premio al Concorso Čaikovskij di Mosca) però, come abbiamo già avuto modo di scrivere, suona da gran musicista più che da gran virtuoso. Nel Primo concerto di Brahms, nel quale il virtuosismo raggiunge un grado molto alto, sfodera naturalmente doppie ottave vigorose, una sgranatura digitale da far invidia, potenza di suono e un notevole vigore fisico, però con lui non siamo al livello del virtuosismo spiritato di Richter, del virtuosismo quasi inumano di un György Cziffra, un Lazar Berman o, per fare un nome recente, di un Arcadi Volodos. Trifonov, piuttosto, travolge con l’intensità drammatica delle sue interpretazioni, che sia il fuoco del mastodontico primo movimento del Concerto o l’incanto doloroso e sospeso del successivo “Adagio”, nei quali ha distillato le note come se fossero gocce d’acqua fino alla dissolvenza dei trilli nelle battute conclusive, con un effetto di trasparenza sonora che quasi per osmosi è passato anche all’orchestra. La Deutsche Kammerphilharmonie Bremen, come si è detto, lo ha ben assecondato, pur senza possedere il colore scuro e nemmeno la precisione di una Staatskapelle Dresden, una delle orchestre di riferimento per il repertorio brahmsiano. Nel “Rondo” conclusivo, selvaggio e isterico, c’era qualcosa di cupo, come un dolore represso, come se tutta l’energia accumulatosi nel corso dei tre movimenti non potesse trovare un vero momento di risoluzione. La pacificazione dei sensi è arrivata solo con il bis, una mirabolante esecuzione della celebre trascrizione del Corale 147 di Bach ad opera di Myra Hess, dove ancora una volta i suoni venivano distillati con cura certosina, il fraseggio era rallentato all’inverosimile ma senza dare un’impressione di stasi, e soprattutto le entrate delle voci erano differenziate in modo sorprendente sia nelle dinamiche sia nel timbro.
A fronte di questa interpretazione è passata in secondo piano una Terza sinfonia di Schumann affrontata dalla Deutsche Kammerphilharmonie Bremen con troppa foga ed è passata in secondo piano anche la bella interpretazione del Concerto in RE per orchestra d’archi di Stravinsky all’inizio della serata, del quale Ruth Reinhardt ha saputo mettere in rilievo le nervature ritmiche in una lettura agile e scattante ma anche flessuosa e morbida nel secondo movimento.
Altra è stata la mano di Krzysztof Urbański nel tratteggiare i panorami timbrici della Quarta Sinfonia in fa di Čaikovskij, che ha tra l’altro trovato con i Bamberger Symphoniker la quadratura del cerchio nel difficile equilibrio tra fiati ed archi nella Max-Littmann-Saal, il cui palcoscenico poco profondo finisce per far rimbalzare immediatamente tra il pubblico il suono degli ottoni. Se questo, però, è avvenuto con la Kammerphilharmonie Bremen, con i Bamberger Symphoniker archi e fiati avevano un buon bilanciamento e lo si è visto fin dall’inizio della serata con la trascrizione orchestrale dello Scherzo per pianoforte della compositrice polacca Grażyna Bacewicz (1909 – 1969). A rendere emozionante la Quarta di Čaikovskij erano la pulizia del fraseggio, la bellezza di un canto quasi mai declamato a piena voce, i toni crepuscolari, la compattezza e la reattività dell’insieme (da incorniciare i pizzicati del terzo movimento), ma anche gli scatti e gli impeti (si veda il tema ricorrente della fanfara) di un’orchestra che Krzysztof Urbański teneva in pugno con una gestualità essenziale ed efficace (ma alle ottime prove di questo direttore siamo abituati).
Il momento centrale della serata, che era la serata di chiusura del Festival, è stato naturalmente il Concerto per pianoforte in mi n. 1 di Chopin interpretato da Jan Lisiecki, canadese di origine polacca, pianista dal volto d’angelo e dalla freschezza contagiosa, tutto all’opposto rispetto alle dolorose contrazioni esistenziali di Trifonov. Il suo era uno Chopin elegante e sereno, soprattutto nel secondo movimento, quieto e luminoso, a tratti però attraversato da improvvisi scatti di vitalità, in particolare nella coda del movimento conclusivo, scintillante e piena di vita come di rado di ascolta. Uno Chopin di classe, anche nel bis, il Notturno opera postuma in do. E l’orchestra non si limitava ad accompagnarlo, restando anonima sullo sfondo come spesso purtroppo si ascolta nei due concerti chopiniani, ma ha dato un contributo importante alla sua interpretazione, già a partire da un’esposizione del primo movimento curata nei minimi dettagli, mostrando di saper dialogare e di saper creare un perfetto alone timbrico.
Luca Segalla
Foto: Kissinger Sommer