MENDELSSOHN Elias M. Petersen (La vedova), M. Losier (La Regina), B. Richter (Il Re Acab e Obadia), J. Shanahan (Elia); Orchestra e coro dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia, direttore Daniele Gatti
Roma, Parco della Musica, Sala S. Cecilia, 9 febbraio 2023
Il genere anfibio dell’oratorio non godette certo nel laico Ottocento romantico la stessa diffusione e fortuna riscossa nell’età barocca. Tuttavia l’esempio della magnificenza händeliana diede anche frutti postumi in compositori come Haydn (per Le Stagioni e La Creazione) e l’ammiratore della musica settecentesca che rispondeva al nome di Felix Mendelssohn (fu lui, come è noto, nel 1829 a Berlino a ridare per primo la vita, sia pur in una esecuzione ridotta e non certo filologica, dopo un secolo di immotivato oblio, alla monumentale Passione secondo Matteo di Bach.
Si respira infatti la sontuosità corale ed il grande afflato delle arie solistiche barocche nell’Elias (scritto per il Festival musicale di Birmingham, 1846), secondo e più maturo tra gli oratori di Mendelssohn, tornato sotto la direzione di Daniele Gatti, nella sala grande del Parco della Musica, per la stagione sinfonica dell’Accademia di S. Cecilia, dove lo si era ascoltato solo sette volte in anni lontani (tra cui nel 1984 sotto la direzione di Sawallisch), mentre nella capitale anche la Filarmonica Romana lo aveva presentato nel 1998 con l’Orchestra della Hochschule für Musik und Theater di Lipsia sotto la direzione di Peter Neumann.
Nonostante sia stato da taluni ritenuto il capolavoro di Mendelssohn e l’oratorio più importante dell’Ottocento, in realtà l’Elias soffre di discontinuità a causa della sua parte più debole, che resta proprio l’assemblaggio dei testi biblici fatto dal poeta teologo Julius Schubring, e per la diversa visione che del profeta avevano musicista e librettista. Così l’azione drammaturgica, condensata in alcuni quadri chiave (la siccità seguita alla maledizione di Elia, il miracolo con cui il profeta riporta in vita il figlio di una vedova, lo sgozzamento dei sacerdoti di Baal, la sfida aperta con l’idolatra Re Acab e con sua moglie, infine l’apoteosi del trapasso nel deserto tra cori angelici), è spesso interrotta e raffreddata da generiche riflessioni morali (di fedeli, quasi considerazioni di voci fuori campo). Non è facile, infatti, conciliare la visione drammaturgica di Mendelssohn con quella narrativa del suo librettista: mentre il compositore mirava al dramma del sentimento religioso, l’ortodosso Schubring mirava piuttosto ad una musica liturgica ed edificante. Si scontravano insomma due diverse interpretazioni del protagonista: quella simbolica del precursore di Cristo e quella storica di profeta inflessibile ed energico. Contrariamente alle intenzioni, Elia si configura qui alla fine non tanto come un uomo determinato che sferza senza misericordia l’ipocrita re Acab ed il popolo abbandonati da Dio, non come il profeta di un Dio vendicativo, bensì un uomo pio, mite e comprensivo. Come per il precedente oratorio Paulus, anche nell’Elias il punto culminante resta colorato di misticismo e spiritualità e coincide con l’apparizione del Signore ad Elia, un momento musicalmente affidato ai cori angelici.
Lo stesso profeta ne esce insomma a metà tra l’eroe di un Dio giudice implacabile e terribile, sarcastico con gli idolatri, ed un uomo pio e dalla fede incrollabile costantemente in contatto, anzi espressamente guidato passo passo dagli angeli celesti, che lo accompagnano sino a quando si dichiara ormai pronto ormai a rendere l’anima a Dio.
Ma se librettisticamente l’oratorio lascia un po’ a desiderare, certo la partitura con le sue indelebili sequenze quasi cinematografiche si apre efficacemente a toni epici, ma anche alla rappresentazione plastica del dolore e del lamento (il popolo afflitto dalla siccità e l’accorato e lancinante appello della vedova) rivelandosi di grande impatto all’ascolto.
Musicalmente Daniele Gatti fa respirare la partitura, riuscendo a vincere bellamente le sopra denunciate e evidenti aporie. Si avverte la sua forte consanguineità con lo stile di Mendelssohn, di cui il mese scorso sul podio dell’Orchestra Nazionale della Rai di Torino ha diretto pregevolmente l’integrale delle cinque sinfonie. Esalta infatti i momenti condensati nei quadri, quanto si voglia sconnessi tra loro, ma di evidenza plastica e a tutto tondo. Domina il flusso sonoro indirizzandolo verso le giuste temperature espressive. Si esalta (e si tira dietro l’orchestra ceciliana e il pubblico) nei momenti clou del racconto biblico veterotestamentario, ma riesce altrettanto bene a disegnare i momenti di ripiegamento mistico ed aperti alla speranza. Conduce con piglio carismatico sino al visionario ed esaltante finale con un carro di fuoco apocalittico, nonostante il calo di tensione dovuto al ristagnare della vicenda proprio quando avrebbe dovuto decollare. La perfetta sintonia tra direttore e un’orchestra che è sempre tra le migliori in Italia ha regalato al nutrito uditorio momenti di grande suggestione, dando quasi visibilità alle immagini evocate.
Last but not least un encomio va al quartetto vocale dei solisti, di cui il mezzosoprano franco-canadese Michèle Losier (la Regina Gezabele) e il tenore svizzero Bernard Richter (Obadia) avevano già partecipato alla integrale torinese. Voce nitida e squillante quella del soprano Marlis Petersen (la vedova), ma forse a sorprendere di più per lo sfaccettato ruolo di Elia era il baritono americano Jordan Shanahan, costretto a passare da una vocalità eroica (anche un’aria di furore) ad una leggera ed intima nel trascolorare della vita del profeta.
In un resoconto critico non si può non elogiare infine il duttile coro ceciliano, guidato da Piero Monti, chiamato ad interpretare momenti e ruoli marcatamente diversi di popolo, angeli, profeti di Baal, dando, con i suoi interventi ora imperiosi, ora celestiali, un contributo quanto mai decisivo all’affresco corale. La scrittura spazia dal corale protestante al fugato ed alla polifonia palestriniana, che Mendelssohn aveva di certo ascoltato a Roma nel suo viaggio in Italia. Il pubblico ha accolto con calorose salve di applausi l’esecuzione romana (oltre due ore di grande musica senza intervallo).
Lorenzo Tozzi