CILEA Adriana Lecouvreur E. Jaho, C. Castronovo, T. Romano, C. Striuli, M. Kiria, F. Pittari, F. Previati; Orchestra Filarmonica “Giuseppe Verdi” di Salerno, Coro del Teatro dell’Opera di Salerno, Direttore Daniel Oren regia, costumi e luci Renzo Giacchieri scene Alfredo Troisi
Salerno, Teatro Municipale Giuseppe Verdi, 7 ottobre 2022
Anche se oggi è poco presente nei programmi dei teatri d’opera (e dire che la prima nel 1902 a Milano, con Enrico Caruso, fu un trionfo), Adriana Lecouvreur è un’opera chiave del verismo italiano, condividendo con Cavalleria, Pagliacci e le altre un certo sentimentalismo lavorato al fuoco di un’alta intensità melodrammatica.
Il libretto presenta una trama ingarbugliata che il regista Renzo Giacchieri, che ha anche disegnato luci e costumi, ha saggiamente mantenuto in una ambientazione tradizionale, scegliendo una narrazione più lineare possibile, senza sovraccarichi di senso, tranne per un ultimo guizzo (non proprio felice): il fondale alla fine diventa uno specchio che riflette la sala, e tutti vi ci dovremmo riconoscere. L’arte che rispecchia la vita e viceversa, insomma.
L’opera contiene molte pagine che meritano di essere ricordate, piene di passione ed emozione, e gli eccellenti protagonisti di questa produzione sono stati interpreti appassionati ed emozionati di quelle note. A partire da lei, Ermonela Jaho, una Adriana commovente nella sua fragilità, che ha saputo immedesimarsi nel “suo” dramma, rivelando un grumo emotivo che si è sciolto a poco a poco davanti al suo pubblico con l’ausilio di un canto sapientemente teso e innervato di pulsioni contrastanti, e una recitazione superbamente tragica. Ermonela ha toccato punte di altissima temperatura emotiva nei duetti, prima con la Principessa di Bouillion, dove era una donna ferita che mostrava la sua avversione nei confronti della rivale, e poi con Maurizio alla fine, prima di morire tra le sue braccia.
Recitando il monologo della Fedra di Racine, ha saputo simulare la grandiosità e la declamazione esagerata delle dive teatrali del passato. Ma soprattutto ha cantato le sue due grandi arie infondendo loro un senso dolorosamente vero: la prima: “Io son l’umile ancella” che sembrerebbe solo una dichiarazione artistica, in realtà per lei già nascondeva intimi tumulti, e si sente. E poi, “Poveri fiori”, eseguita con un coinvolgimento passionale ancora trattenuto ma carico di senso drammaturgico, con i momenti di silenzio tra le note che, come avrebbe detto Mozart, erano più eloquenti delle note stesse. Qui la tensione drammatica era al culmine. Poi si è giunti alla scena della follia col suo carico di straordinaria autenticità, ed infine la morte.
Man mano che la storia procedeva, come dicevamo il grumo di emozioni dentro di lei si scioglieva, tanto che nel finale ha pianto mentre cantava. Il soprano si era immedesimata tanto profondamente nel personaggio che lacrime vere hanno accompagnato alcuni dei momenti più drammatici della storia, commuovendo anche il pubblico che alla fine le ha tributato un trionfo.
Il tenore Charles Castronovo (Maurizio) ha cantato con giovanile fervore, ardente lirismo e squillanti note di testa, ed era ideale quindi per l’impetuoso conte di Sassonia. Castronovo possiede un fraseggio preciso ed elegante, con un controllo del fiato invidiabile. Ha portato molta energia al ruolo e gli è riuscito bene il passaggio dal dongiovanni dell’atto I, all’amante appassionato e tenero alla fine dell’atto IV. Dopo un inizio da seduttore con pochi scrupoli, il suo tono si è fatto sempre più caldo e appassionato. Nel canto d’amore “Sono stanco, la strada è lunga” è stato veramente notevole.
Teresa Romano nei panni della Principessa ha fatto una scelta tutta veristica di rompere le convenzioni (e i freni) del bel canto fine a sé stesso; la sua voce rivelava i toni e le sonorità a volte aspre di un personaggio complesso, con passaggi tra i registri intelligentemente modulati, in particolare nella perfetta esecuzione di “Acerba voluttà”. Lo scontro tra lei ed Adriana rivelava in entrambe un feroce tentativo di autocontrollo per un dolore e una rabbia al contrario irreprimibili.
Misha Kiria, nei panni di Michonnet, presentava un canto a voce piena molto interessante, con una buona rappresentazione del vecchio direttore di scena segretamente innamorato di Adriana, a cui si dichiara quando ormai è troppo tardi; uno studio del carattere piuttosto efficace, il suo, con un ottimo legato mentre con “Ecco il monologo” ci trasmetteva tutta il suo tenero affetto per Adriana.
Carlo Striuli è stato un Principe incisivo e convincente, ed a suo agio nei panni di un personaggio poco amabile, con una voce ampia e per certi aspetti ponderosa, ma che rendeva bene il personaggio.
Francesco Pittari, l’Abate di Chazeuil, con il suo timbro tenorile volutamente “acuminato” è stato una spalla preziosa per Striuli: i due hanno mostrato un grande affiatamento nelle loro scene a due.
Anche nei quattro ruoli minori, Cristin Arsenova, Lorrie Garcìa, Fabio Previati e Enzo Peroni hanno contribuito alla buona riuscita: erano efficaci e a tratti divertenti nelle loro brevi scene con voci nitide e un tocco di leggerezza che non guastava.
Le coreografie del balletto del giudizio di Paride, senza inutili voli pindarici, erano appropriate rispetto alla musica di Cilea e al libretto.
L’Orchestra Filarmonica “Giuseppe Verdi” di Salerno, diretta da un Daniel Oren in stato di grazia, era in forma smagliante ed ha suonato con sentimento e passione, con musicalità e fraseggio intelligenti. Il tocco di Oren ha impedito al dramma di scivolare nella melensaggine, come accade con altri direttori. Buona, come di consueto la prova del Coro del Teatro dell’Opera di Salerno.
Lorenzo Fiorito