Filiberti a confronto con Proust: i “Cahiers d’écriture”

Il 15 e 16 luglio scorsi al Teatro degli Avvaloranti di Città della Pieve e il 22 luglio al Teatro Castagnoli di Scansano Marco Filiberti ha messo in scena i primi due quadri della sua personale riflessione sulla Recherche di Proust, intitolandoli Cahiers d’écriture. Più che di una riscrittura teatrale si dovrebbe, forse, parlare di una ricerca – eh sì, ricerca della ricerca – degli archetipi che hanno spinto, o addirittura obbligato Proust a scrivere ciò che ha scritto e di ciò che, oggi, a Marco, che l’ha avviata, e a noi, che assistiamo, dice, rivela, confessa una tale ricerca. Ne ho riflettuto in una provvisoria recensione, uscita su Cyrano Factory (cyranofactory.com) con il titolo Lo spazio fossile del tempo il 16 luglio scorso, e ho poi posto a Filiberti alcune domande alle quali ha con la sua solita gentilezza, ma soprattutto con il solito acume, la sua usuale intelligenza, e raffinata sensibilità, risposto.

Trasferire – alla lettera: come un traslato, come una metafora – un romanzo, e tanto più un romanzo complesso, intricato, come la Recherche di Proust, sulla scena, non è operazione né semplice né automatica: bisogna convertire la narrazione in drammaturgia. Come hai fatto?

Come accade sempre per me, lascio che le cose avvengano, senza forzare niente ma consentendo alla visione, se c’è, di manifestarsi: e a quel punto si tratta solo di accoglierla, non c’è scelta.

D’altronde, la mia militanza proustiana dura da tutta la vita, la Recherche essendo stata un viatico molto evidente fin dalla mia prima giovinezza di quel binomio che congiunge vocazione artistica e salvazione, una questione centrale nella mia vicenda di uomo sociale e spirituale, e di artista. Inoltre, ho sempre pensato che la fenomenologia messa in scena da Proust come “portale” di un disvelamento fosse qualcosa di molto teatrale, assolutamente rappresentabile. Partendo dalla centralità dell’aspetto “fedrico” del Narratore, e quindi di tutto il romanzo, cioè dell’amour coupable come pietra scartata dal costruttore che si fa testata d’angolo, sto costruendo il mio assetto drammaturgico lavorando non sullo spasmodico antagonismo di “cosa metto e cosa scarto” ma cercando di trasferire una visione organica che, già da sé, accoglie alcune istanze del romanzo e ne depura altre in quanto non fisiologicamente connesse al mio tipo di sguardo. Sul piano linguistico, una volta dichiarato che la mia traduzione di riferimento è quella di Raboni, mi sto muovendo con grande libertà tra fedeltà e autonomia. In ogni caso, ovviamente, la mia Recherche non sarà una trasposizione pedissequa del romanzo (operazione che, tra l’altro, troverei assolutamente inutile) ma, al contempo, penso che sarà fortemente “proustiana”. 

Si pensa in genere che una rappresentazione abbia un’azione, e l’azione un inizio, uno sviluppo, e una conclusione. Ma non è sempre questo il teatro. Aristotele rimprovera alle Troiane di Euripide di non avere un’azione. Gli sfugge che l’azione è la distruzione di una città e la sconfitta di un popolo: qualcosa che ormai non ha più azione. Che cosa la sostituisce? Il tempo ritrovato è in realtà la consapevolezza di averlo perduto per sempre?

La “mia” Recherche racconta il viaggio dell’iniziato attraverso i segni del mondo, un viaggio confuso e sdoppiato tra gli inganni del Tempo diacronico, quello “perduto”, e i bagliori di verità di quello sinestetico, eterno, il Tempo Ritrovato. Al centro della cattedrale, più che i riti sociali della mondanità ci saranno la tensione e i fallimenti verso l’approdo gnostico ed escatologico del finale. Tuttavia, questi “segni”, questi distillati della fenomenologia illuminati dall’interno, gronderanno di fascino, saranno gli struggenti simulacri del Tempo Perduto, di tutto ciò che noi abbiamo desiderato, confondendolo con la felicità. Il Tempo Ritrovato è la resa, accettata e sacralizzata, al fatto di aver perduto la nostra vita proprio per ritrovarla al di là delle identificazioni, degli attaccamenti, delle proiezioni egoiche: averla trovata, appunto, nella sua componente assoluta, eterna, libera, salvifica.  

La Recherche è un romanzo in cui ogni parte deve avere un senso rispetto al tutto. Anche la divagazione. Anche la spiegazione. Nel tuo teatro, ugualmente, ogni aspetto si relaziona all’intero spettacolo. Anche la musica. E contribuisce a chiarire o, meglio, a rappresentare, anche uditivamente, il senso di ciò che accade sulla scena. Come scegli le musiche di uno spettacolo?

Ogni elemento, anche il più infinitesimale, nel mio lavoro, non solo teatrale, deve maturare da sé, dall’interno, e non apposto dall’esterno perché “funziona” o perché “è bello” o, peggio che mai, “utile a qualcosa”. Figuriamoci poi la musica, che è uno dei miei principali canali di connessione e di restituzione! Infatti la musica, il suono, si fa vera e propria drammaturgia che dialoga da pari a pari con il testo. Anche in questo caso, avendo una militanza da musicista e culture della musica da quando sono bambino, in genere lascio che le suggestioni affiorino spontaneamente; anzi, talvolta addirittura anticipano il progetto, ne rivestono esotericamente una forma ancora nascosta. Poi, certo, mi aiuta molto la familiarità con la storia della musica. Da anni poi lavoro con Stefano Sasso, vero e proprio dramaturg musicale con il quale costruiamo un tessuto, un cluster, diverso per ogni lavoro, un vero e proprio arazzo stratificato di elementi dal quale, di volta in volta, emergono linee musicali, bagliori evidenti. Certamente, il concetto – per quanto improprio, ma non apriamo questioni musicologiche – di leitmotiv wagneriano, è uno strumento che mi risuona moltissimo, e che mi ha consentito di approdare a grandi risultati, soprattutto quando non è solo applicato al tessuto musicale in senso stretto, ma anche a quello recitativo e coreutico degli attori.

Marco Filiberti

Per ora, questa tua Recherche, nel senso di una tua inchiesta che da Proust s’interroga sul senso della vita, del ricordo, della vita che si perde, e del ricordo che invano cerca di ricatturarla, si esplica in quadri separati che chiami quaderni, Cahiers, e quaderni di scrittura, d’écriture, mettendo in evidenza il ruolo fondamentale, appunto, della scrittura, in teatro della forma drammaturgica, che potremmo chiamare scrittura teatrale. Sta qui l’equivalenza, l’analogia, con la scrittura narrativa di Proust?

È chiaro che la questione della scrittura, del logos proustiano, stia al centro di qualsiasi lavoro sul romanzo di Proust. Tuttavia, io penso che l’analogia tra testo narrativo e testo drammatico deve risiedere prima di tutto in una precisa idea drammaturgica (e, nel mio caso, necessariamente registica) che, in questo caso, è quella che ho esposto brevemente in precedenza: l’idea, dunque, che da una condizione frustata di passiva sofferenza per ogni tipo di amore non corrisposto – e, quindi, inadeguato, colpevole – (a partire da quello che il Narratore bambino vive nei confronti di sua madre) scaturisca una visione tragica che, attraverso una palingenesi elargita da quella accettazione che io chiamo resa, diviene gnosi mistica, visione escatologica. La negazione di una esistenza piena, nel Proust-Filiberti, si manifesta come l’Angelo scarlatto di benjaminiana memoria.

I primi due quaderni affrontano il tema della gelosia e quello del teatro, tanto per ritornare all’argomento principe che mi pare d’intravedere nella tua ricerca: come può il teatro farsi interprete se non di una spiegazione, e tanto meno di una narrazione, della vita, proporsi come interprete, e interprete interrogante, delle domande che ci pone la vita?

Non parlerei tanto di teatro, ma di verità artistica tout court, o di verità attraverso l’arte, e quando uso la parola verità naturalmente mi riferisco all’afflato con cui la ricerco e non ai risultati che posso o non posso ottemperare. In tutta onestà, penso che l’identità più indiscutibile del mio lavoro sia la sinestetica compresenza di tutte le declinazioni dell’arte quali tasselli necessari per costruire un sistema alternativo al sistema dominante. È solo in questo tipo di costruzione, quello dell’Opera-Mondo, che, come dici tu, mi propongo come interprete interrogante nei confronti del mistero-vita e, ora, del mistero-umanità nella deriva così evidente nella quale ci troviamo immersi. E tutto questo, indipendentemente dalla forma che utilizzo di volta in volta, sia essa il teatro, il cinema, la letteratura narrativa o saggistica o poetica, la maieutica. Non appartengo a nessuna cricca, neppure a quella dei teatranti o dei cinematografari, non ho alcun culto di queste manifestazioni in quanto tali ma, di volta in volta, sento prepotentemente la possibilità che possano, nonostante tutto – persino nonostante se stesse – farsi mezzo straordinario e numinoso per veicolare bellezza e verità, le due cariatidi che sostengono il frontone della mia vita, affittate dall’amico John Keats.  

Come si è letto, Filiberti parla di “verità artistica”! Oggi potrà sembrare quasi blasfemo, quanto meno in un paese che del realismo, e della corrispondenza tra arte e realtà ha fatto quasi il suo manifesto. Ma bisogna intendersi sulla parola realtà e ancora di più sulla parola verità. Il neorealismo è stato un momento straordinario del cinema italiano. Ma si è prestato anche a molti equivoci, il peggiore credere che il film fosse la riproduzione di una realtà. Nella musica è stato ancora peggio con il verismo. Di fatto né Puccini, né Zandonai né lo stesso Cilea sono compositori e drammaturghi veristi nel senso comune del termine. Adoperano, sì, certe forme, certi atteggiamenti di più aperto richiamo veristico, ma solo come stile, come metafora musicale e drammatica che caratterizzi un personaggio, una situazione, e purché resti momentanea, circoscritta, non ne fanno, come Mascagni o Giordano, e anche questi non sempre, l’ossatura di tutta l’azione, la struttura, la cifra usuale della partitura. E di solito, anzi, rifuggono dagli effetti più plateali, dalle scene più truculente. O quando lo fanno acquista un carattere quasi espressionistico, di esagerazione, di esasperazione del conflitto drammatico. Non a caso poi le situazioni estreme, le più violente, appaiono più efficacemente realizzate proprio nelle opere non italiane in cui più raffinata, più intricata è l’elaborazione stilistica, come in Berg, o in Šostakovič. Nei cui confronti gli esiti anche delle opere più famose del verismo italiano sembrano puerili, superficiali, rozzi. Così accade anche nel cinema. Per i grandi registi il neorealismo è stato solo uno stile, non una corrispondenza vita-arte. Come avessero letto e introiettato il messaggio di Mimesis, il bel libro di Auerbach sul realismo nella letteratura occidentale. Non a caso, forse, il film più riuscito, il più asciutto, non oso dire il più bello (molti sono, infatti, i capolavori, Roma città aperta o Ladri di bicicletta, tra i più notevoli), è La terra trema di Luchino Visconti, tratto dal romanzo I Malavoglia di Verga. A cominciare dall’uso inflessibile della parlata popolare siciliana di Aci Trezza. La ricerca – sì, la ricerca – di un’essenzialità stilistica rasenta quasi la preziosità dell’estetismo. Ma proprio per questo – e di fatti non si tratta di estetismo – Visconti coglie il nodo di ciò che, per l’arte, può, anzi deve, significare il realismo: non la copia, la riproduzione, della realtà, bensì la ricerca del suo significato, della sua essenza profonda, del suo, diciamolo, archetipo: la verità dell’arte. Aristotele nella Poetica, che è il primo trattato che colga davvero la natura dell’estetico, del bello dell’arte, non del bello della vita, scrive che la tragedia è più universale della storia, perché la storia si occupa della singolarità, dell’individuo, dell’evento realmente accaduto, la tragedia di ciò che può essere di tutti, che può avvenire dovunque e in ogni tempo, non che sia avvenuto, del verosimile, non del vero. Ecco: la verità dell’arte è ciò che può accadere, non ciò che accade, ciò che rivela il senso dell’accadere, non ciò che accade non si sa perché. A dare senso al reale non è la nostra esperienza, ma la consapevolezza della nostra esperienza. Un’arte che non contenga questa consapevolezza, questo senso universale, questa verità che può essere la verità di tutti, e non del singolo, non è arte. Ma si badi, universale non nel senso che oggi comunemente s’intende, che la musica è universale, che l’arte è universale e che dunque tutti la capiscano, possono, anzi, devono capire. Ma universale perché comunica un significato universale, un archetipo umano e culturale al quale però si accede solo se si hanno gli strumenti culturali per intenderlo. A intendere un Nō giapponese – che può comunicare archetipi e significati universali quanto una tragedia greca – devo però prima immergermi nella cultura dentro la quale è nato, devo cogliere gli archetipi di quella cultura, m’ingannerei se credessi che basta il mio sentimento di uomo per comprenderlo, perché io non sono un uomo generico, un uomo di qualunque angolo della terra, ma, per esempio nel mio caso, un uomo nato a Roma, in Italia, che si è formato essenzialmente sulla cultura italiana e solo poi per personali vicende si è trovato ad apprendere e assimilare anche altre culture, ad amarle, prima di tutto cercando, finché possibile, d’impararne anche le lingue. La musica nostra, ai cinesi dei secoli passati pareva insopportabile rumore. Come del resto la loro a noi. Solo lo studio, l’apprendimento ha potuto farcela comprendere e apprezzare, reciprocamente (anche se va riconosciuto che gli orientali oggi sanno di noi molto di più di quanto noi sappiamo di loro). Ed è questo che Marco Filiberti vuole dirci: che ciò che vediamo sulla scena, ciò che ascoltiamo, ciò che leggiamo. può comunicarci una verità di cui prima non sospettavamo nemmeno l’esistenza. Ma questa verità, l’archetipo (Aristotele direbbe l’universale) che ce la rivela, è un lavoro interiore di studio, di conoscenza di noi stessi e degli altri, senza il quale anche il messaggio più sublime è lettera morta.

“Alles was ist, endet”, dice Erda a Wotan nell’Oro del Reno. Tutto ciò che è finisce. E l’Oracolo di Delfi ingiungeva all’interrogante: “Conosci te stesso”. Che non è ciò che noi oggi intendiamo con conoscerci, ma conoscere i nostri limiti di “effimeri”, creature che durano un giorno, di un giorno (questo significa “effimero”). Moriamo. Siamo creature del tempo. A Socrate che la interrogava, la Sibilla rispose: “Voglio morire”. E da lì Socrate fa cominciare la filosofia: dall’interrogarsi sulla morte, sul finire, sul tempo. Ce lo racconta Platone. Ma come lo arrestiamo questo fluire, questo finire? Con il Logos, con il linguaggio. Lo strumento della memoria. Proprio perché possediamo il linguaggio – per Aristotele e per i neuroscienziati, come per i linguisti, di oggi la differenza specifica dell’animale uomo – il tempo può essere fermato, ricordato, esistere anche quando è già accaduto. Marco Filiberti c’invita a riflettere su questo.

Dino Villatico

Data di pubblicazione: 3 Agosto 2023

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