ROSSINI La scala di seta: sinfonia HAYDN Concerto per violoncello e orchestra n. 1 in Do maggiore BEETHOVEN Sinfonia n. 3 “Eroica” violoncello Nicolas Altstaedt Budapest Festival Orchestra, direttore Iván Fischer
Vicenza, Teatro Olimpico, 22 ottobre 2022
La nuova edizione del “Vicenza Opera Festival” riporta nello scenario incredibile del Teatro Olimpico Iván Fischer e la sua Budapest Festival Orchestra, nominata migliore orchestra dell’anno dalla celebre rivista inglese “Gramophone”. Incastonato tra le due recite di The turn of the screw di Britten, il tradizionale concerto sinfonico conferma il livello altissimo dei singoli musicisti, così come dello standard della compagine, di quelle che ascolti come fossero nate da un unico respiro, immerse in una solidità d’assieme stupefacente. Iván Fischer rimane uno dei migliori direttori sulla scena internazionale, legato soprattutto al grande repertorio sinfonico: sono artisti che in un gesto plastico raccontano la musica nelle sue minime dinamiche e inflessioni.
Nella perla della sinfonia da La Scala di seta, omaggio all’Italia, difficilissima, incontriamo un colpo d’arco esemplare, lo spirito esatto con cui vivere l’energia cinetica interiore in ogni nota e articolazione di questa memorabile pagina. Passando al Concerto per violoncello in Do maggiore di Haydn, nasce la sensazione che certi repertori sembrano prendere nuova vita solo con alcuni artisti, e che solo un certo standard interpretativo sia portatore di autenticità. Giusto o sbagliato che sia, Nicolas Altstaedt, punta di diamante del violoncello a livello mondiale, specie per il Settecento e primo Ottocento, coglie davvero in ogni nota tutte le dimensioni del fraseggio, delle figurazioni ritmiche, del dialogo cameristico. L’impostazione è quella delle prassi storiche oramai imprescindibili, suono e vibrato contenuti, grande varietà nell’articolazione e nei contrasti, anche se con alcune discrepanze rispetto allo stile più ordinario dell’orchestra. In Altstaedt tutto parla, in una varietà senza fine di dinamiche anche nel singolo suono, in ogni registro del violoncello. La sua cantabilità, mai sopra le righe, apre orizzonti di serenità e ampio respiro, di libertà, soprattutto nell’Adagio. In calzini, camicione e pantalone oversize tutto nero, con violoncello senza puntale, Altstaedt – centro di questa serata – sembra uscito da un’altra dimensione, ci sradica per fortuna dalla routine ordinaria, e con autentico virtuosismo racconta storie meravigliose.
La scenografia dell’Olimpico richiama immancabilmente il repertorio classico, e Iván Fischer non rinuncia mai non solo ad Haydn, ma anche a Beethoven, che colloca però in un’estetica più ottocentesca, senza accogliere pienamente alcune consuetudini delle prassi esecutive, rispetto, ad esempio, all’atteggiamento del fratello Adam, anch’egli affermato direttore, che in questo repertorio pare più coerente. Iván Fischer disegna soprattutto la cantabilità di ogni figura dell’Eroica, quasi alla ricerca di una ri-costruzione di un’idea di regolarità nell’ambito delle irregolarità e asimmetrie che la pervadono. Ma al di là di considerazioni filologiche o storiche, colpisce e impressiona comunque la continua chiarezza disarmante del fraseggiare, delle strutture, che proprio su un terreno così battuto risulta essenziale e mai scontata. Emerge così in Fischer quell’aspirazione totalizzante beethoveniana nel saper esporre grandi vedute, l’affresco e il senso della grande forma, che vivono nella valorizzazione delle fondamentali basi armoniche o in certe dilatazioni temporali, come nella Marcia funebre. Fuoriprogramma, quasi un sigillo ormai, l’orchestra lascia gli strumenti e canta in coro, riproponendo, come nel 2021, Benedizione della sera op. 29 di Dvořák, impeccabile pure nelle voci. Veramente la musica non ha limiti e confini. Ovazioni.
Mirko Schipilliti
BRITTEN The Turn of the ScrewM. Persson, L. Aikin, A. Staples, A. Cook, B. Fletcher, L. Barlow; Budapest Festival Orchestra, direttore Iván Fischer regia Iván Fischer e Marco Gandini costumi Anna Biagiotti scenografie Andrea Tocchio luci Nils Riefstahl effetti speciali Nils Corte
Vicenza, Teatro Olimpico, 23 ottobre 2022
The Turn of the Screw è uno dei massimi capolavori del Novecento. Ne abbiamo avuto riprova ascoltandolo al Teatro Olimpico di Vicenza nell’ambito del Vicenza Opera Festival, la manifestazione ideata da Iván Fischer, il direttore ungherese che da cinque anni porta nella città di Palladio la sua Budapest Festival Orchestra, da lui fondata nel 1983, una delle più prestigiose formazioni orchestrali che giusto pochi giorni fa è stata nominata dalla rivista Gramophone “Orchestra of the Year”.
Un titolo insolito, quello scelto per l’edizione di quest’anno, certamente non tra i più frequentati in Italia eppure, come si diceva, uno dei vertici del teatro del XX secolo, portato in scena dal compositore britannico Benjamin Britten al Teatro La Fenice di Venezia nel settembre del 1954.
Ispirata al celebre racconto omonimo di Henry James pubblicato a puntate nel 1898, The Turn of the Screw è un’opera intrisa di mistero e suspense, che tiene gli spettatori avvinti dall’inizio fino al tragico epilogo. La trasposizione librettistica di Myfanwy Piper, scritta per Britten circa mezzo secolo dopo, mette in primo piano il tema della corruzione esercitata dagli adulti sui bambini, a cui i piccoli sono più esposti perché più indifesi. Anche se non tutto è così lineare: resta sempre il dubbio che, come una vite, gira nella testa e nell’animo dello spettatore, un dubbio che ha a che fare con i propri fantasmi interiori, con le proprie paure, con i propri desideri e le proprie fantasie più recondite.
La curiosa storia di fantasmi in cui la realtà e la dimensione onirica si mescolano, i vivi perdono la consistenza reale e i morti appaiono più concreti della vita stessa, mette in discussione le certezze dello spettatore chiamato ad “avvitarsi” sul mistero del male e dell’innocenza perduta. È la storia di una Governante che va ad occuparsi di due bambini orfani, affidati solo alle cure di una cameriera anziana e semi analfabeta ed alla tutela a distanza di uno zio ricco e sornione. Ma il plot diviene un contenitore di sospetti tra ciò che è accaduto e ciò che è insinuato, ed in questa dimensione indefinita si articolano opinioni ed immagini del presente e del passato del tutto arbitrarie, che deformano la realtà e la rendono una delle possibili declinazioni del vero.
Un soggetto non facile da mettere in scena, tanto più in un luogo di incomparabile bellezza come l’Olimpico, dove le scene fisse di Scamozzi condizionano enormemente le scelte registiche. Marco Gandini e lo stesso Iván Fischer hanno scelto di ignorare il fondale cinquecentesco e di montare lo spettacolo sul palcoscenico utilizzando alcuni arredi per suggerire l’interno di una casa inglese di fine Ottocento: il lettino in ferro di Miles, un’imponente libreria che nel secondo atto si apre suggerendo l’interno di una cappella; un salottino azzurro, un pianoforte, un banco da scuola, un piccolo giardino con lo stagno e, al centro, le vetrate della casa, sulle quali, avvalendosi della tradizionale tecnica del fantasma di Pepper, appaiono le fattezze di Miss Jessel e di Peter Quint.
Tutto sembra un po’ posticcio, in stridente contrasto con il fondale ligneo di Scamozzi, ma tanta è la presa di cui è capace la musica di Britten che alla fine quasi ci si dimentica delle scene, catturati dal potere ipnotico del canto. E degli interpreti, tra i quali a buon diritto vanno ricompresi anche gli strumentisti chiamati ad un ruolo di primissimo piano. Britten, infatti, raggiunge in questo lavoro un vertice perfetto di unità e intensità psicologica, articolando il dramma in un prologo e sedici scene collegate tra loro da interludi strumentali, che hanno la stessa — se non maggiore — intensità espressiva delle parti cantate. Fischer imposta la direzione nel segno della trasparenza e della lucidità, con un senso vivissimo del teatro capace di passare dall’apparente dolcezza e candore di certi momenti all’arrovento clima espressivo dei passaggi più drammatici. Straordinari tutti i musicisti. E straordinaria, in tutte le sue componenti, la compagine vocale, fatta di bravissimi attori oltre che grandi cantanti. Il soprano svedese Miah Persson incarna la figura dell’Istitutrice, tratteggiando con voce sicura e luminosa una donna mentalmente insicura, mettendone in risalto la fragilità e l’insicurezza, combattuta fra pulsioni a stento represse, sensi di colpa e paure. Accanto a lei, eccellente la caratterizzazione della volitiva Mrs. Grose proposta da Laura Aikin, in forte contrasto con la fragile Istitutrice. Memorabili il Prologo e il Peter Quint proposto da uno dei maggiori cantanti britteniani di oggi, il tenore Andrew Staples, perfettamente calato nella sua difficile parte, cesellando con vigore e intelligenza ogni parola, e mostrando un forte magnetismo scenico nel ritrarre un fantasma di inquietante esuberanza. Allo stesso livello il mezzosoprano britannico Allison Cook, che del fantasma di Miss Jessel ha proposto un ritratto di quasi selvaggia sensualità. Se efficace e molto brava in scena era la piccola Flora, l’appena undicenne Lucy Barlow, impressionante per sicurezza vocale si mostrava il piccolo Ben Fletcher: 12 anni, membro del Trinity Boys Choir di Croydon, con già all’attivo altre esibizioni sul palcoscenico, il suo Miles è risultato incantevole e credibile.
Al termine successo vivissimo per tutti tributato con calore da un pubblico attento e partecipe che assiepava ogni spazio della cavea teatrale. Appuntamento al prossimo anno con altre sorprese che Iván Fischer vorrà offrire alla città di Vicenza.
Stefano Pagliantini
Crediti: Colorfoto