MONTALTI Un romano a Marte (opera per attore, voce recitante, tre cantanti orchestra ed elettronica su libretto di G. Compagno). Opera vincitrice del premio di composizione del Teatro dell’Opera di Roma. Prima rappresentazione assoluta. Con R. Albuquerque, D. Pellicola, T. Baranov, G. Portoghese, V. Almerighi; Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, direttore John Axelrod regia Fabio Cherstich scene, costumi e video Gianluigi Toccafondo luci Camilla Piccioni
Roma, Teatro Nazionale, 24 novembre 2019
Il panorama della cultura italiana dei tre decenni compresi fra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del Novecento, senza Ennio Flaiano apparirebbe oggi forse meno frastagliato e meno interessante. Flaiano è stato una figura affatto peculiare di intellettuale (giornalista, umorista, elezevirista, sceneggiatore, critico, commediografo, regista etc. etc.), ascrivibile, insieme a Cesare Zavattini e Marcello Marchesi, ad un supremo terzetto di filosofi dello sberleffo, di pensatori pronti a metter i mustacchi alla Gioconda, come ad inventare riflessioni d’altezza e profondità stupefacenti; ad arzigogolare metafore e ghiribizzi, come a rivelare l’uomo nei suoi palpiti più intimi. Un marziano a Roma di Flaiano, al Lirico di Milano il 23 novembre del 1960 con Vittorio Gassman, Ilaria Occhini e le musiche di Guido Turchi, fu uno dei più clamorosi fiaschi dell’epoca. Eppure venne ripreso in teatro più e più volte e Federico Fellini pensò a lungo se trarne un film; che poi nel 1983 Antonio Salines realizzò assai decorosamente per la RAI.
Giunge ora il giovane Vittorio Montalti, assai lanciato verso magnifiche sorti e progressive da committenze, premi, inaugurazioni, cattedre e non poco altro, a proporre per l’Opera di Roma, ma al Teatro Nazionale, una mise en opéra dell’arte di Flaiano e di personaggi e temi e ambienti (altra trama non chiedeteci di trarne) dal Marziano a Roma, col titolo però capovolto d’Un romano a Marte. Non andavamo al piacevole, accogliente Teatro Nazionale (a pochi metri dal Costanzi) da quando vi vedemmo quel superbo lavoro che era il Saül di Flavio Testi. Opera di eccezionale maturità quest’ultima; opera indubbiamente acerba quella di Montalti. Che tuttavia mostra qualità che diremmo ora superiori a quelle esibite a Firenze con Ehi, Gio’!, apologo sull’ultimo Rossini. Compositore ch’egli stesso afferma, per un giovanile Barbiere all’Opera, esser stato il suo imprinting musicale. E ciò che dell’inventiva di Montalti ci ha con favore impressionati, è stato proprio un qual rossinismo della scrittura vocale. Il testo composito e talor delirante di Giuliano Compagno, da Montalti viene usato come base per una frammentazione in fonemi, in una sorta di stravolgimento da verbo concreto a musica astratta, che sembra ricordarsi dei “contrappunti alla mente” di Adriano Banchieri o dei “nodi avviluppati” e dei “gruppi rintrecciati” del Pesarese. Ed è intelligente cifra di stile, che inventa e lavora e collima bene con quella dimensione dell’assurdo umano sempre imprescindibile dalla poetica di Ennio Flaiano. Che poi i sessanta minuti di tal opera siano troppo infarciti di parlati, di registrazioni (bella però la testimonianza di Tonino Guerra), di rumori allogeni, non v’è dubbio. Il dubbio invece ci vien posto dal più che cospicuo impatto sonoro dato dall’orchestra: che certo avvolge costantemente l’azione e la riflessione, che dà luogo a due rispettabili pagine per sola orchestra, ma che con tali percussioni e con tal violenza d’elettronica e d’altro in buca, sembrerebbe dover darsi carico di tragedia e non di commedia, di dramma e non d’ironia, con una qual memoria delle rabbie di certe lussuose avanguardie sessantottine abbastanza fuori tempo massimo. Sicuro, la parabola del marziano Kunt, in discesa o in ascesa che sia, è amara e corrosiva: ma, crediamo, non abbisognasse a tal segno d’esplicitezza fonica. Peraltro governata con mano fermissima dall’americano John Axelrod (uso ad altri e più impegnativi cimenti) ed eseguita con assoluta compitezza dai giovani cantanti e attori in palcoscenico.
Diremmo però che una parte non minore del successo (qual si è avuto) della serata, dell’opera e di Montalti, dev’essere attribuito alla regia di Fabio Cherstich e alle visualizzazioni di Gianluigi Toccafondo. Che del tempo flaianeo, della Roma della “dolce vita”, di personaggi più e più volte paparazzati (e fu Flaiano ad inventarsi il termine “paparazzo”), delle notti brave di Via Veneto e di Piazza del Popolo, hanno ben restituito l’atmosfera di frivolezza e d’incubo, di glorioso e d’effimero. E veder sfilare proprio tutti i protagonisti del tempo – dal Cupolone visto da Villa Borghese e cantato da Anna Magnani al mitico strip-tease di Aïché Nana, da De Chirico alle periferie pasoliniane, dalle eroine popolari alle dive – invitava a giocare con la memoria. “Un piacer serbato ai saggi”, ma di età non più verde…
Maurizio Modugno
Foto: Yasuko Kageyama – Opera di Roma