ROSSINI Guglielmo Tell: Sinfonia; Tancredi: “Come dolce all’alma mia” BELLINI Norma: Sinfonia; Puritani: scena della follia di Elvira MEYERBEER L’Africaine: Sinfonia; Les Huguenots: “O beau pays” VERDI Luisa Miller: Sinfonia; Rigoletto: “Caro nome” DONIZETTI Roberto Devereux: Sinfonia; Lucia di Lammermoor: scena della follia di Lucia soprano Jessica Pratt Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, direttore Jader Bignamini
Milano, Auditorium, 4 dicembre 2014
Dopo il Giulio Cesare torinese, e dopo l’intervista concessa a Giorgio Rampone e pubblicata sul numero di dicembre/gennaio di MUSICA, Jessica Pratt si è presentata al pubblico milanese con un recital in grande stile, di quelli che in Italia non si usano più: una ricca e estremamente impegnativa raccolta di arie, logicamente tra loro connesse e, soprattutto, con una grande orchestra (in tutti i sensi) e non il semplice pianoforte ad accompagnarla. La presenza di Bignamini, in effetti, si avvertiva molto: lui e la Pratt tracciavano un percorso dal Belcanto italiano (Rossini, Bellini e Donizetti) alle sue propaggini francesi, con il grand-opéra meyerbeeriano, e agli approdi nel melodramma verdiano, unendo pagine sinfoniche (anche con scelte non frequenti, come i preludi dell’Africana e del Devereux) a quelle vocali. Il gesto di Bignamini conferma le ottime impressioni suscitate dalla Forza parmense: molto elegante, teatrale, sa ottenere quello che vuole dall’orchestra senza cadere (di solito) nell’effettismo e, soprattutto, sa trovare una virtuosa medietà fra il soggiacere al canto e il soffocarlo. Non tutto mi è parso inappuntabile, intendiamoci: la Norma suonava davvero troppo garibaldina, la sinfonia della Luisa Miller era priva di quel clima di Romanticismo fosco che dovrebbe innervarla, ma nel complesso rimane la sua una prova assolutamente positiva. Anche nella Pratt non tutto era immacolato: ma questo solo se tariamo le nostre aspettative ad un livello altissimo, quale si merita questa splendida cantante. Ricorrere al paragone con la Sutherland non è, credetemi, banale come sembrerebbe, vista la comune origine australiana e anche una certa imponenza fisica: ad osservare bene come la Pratt emette certi trilli bassi, come risolve i sopracuti, si nota davvero un modello chiarissimo. Voluto? Casuale? Non lo so, ma l’intelligenza di un’artista si valuta anche da quale modello si sceglie. In effetti il suo canto, come quello della Stupenda, ha una forte valenza strumentale, come è giusto che sia in questo repertorio: ovviamente non raggiunge l’assoluta perfezione della Sutherland (d’altronde…), ma la dizione è, ad esempio, non solo mille volte più nitida, ma intelligentemente sfruttata a fini espressivi. Qualcosa è venuto meno bene, dicevamo: l’aria di Amenaide, ruolo che debutterà nel 2015, non mi è parsa affatto a fuoco, “Caro nome” era un tantino tirato via (ma magnificamente cantato). Sublime, per contro, la coquetterie di Margherita di Valois e senza paragoni, al giorno d’oggi, la grande pazzia di Lucia, ruolo in cui Jessica ha già una salda esperienza teatrale: esperienza che le insegnerà anche a badare più all’elemento ritmico, da cui nasce l’effetto di gran parte dell’aria, che alle pur graziose gag nel bis proposto a conclusione, ossia “Glitter and be gay” dal Candide di Bernstein. Gli insistiti applausi del pubblico hanno costretto la Pratt a ripetere anche “Spargi d’amaro pianto”: e il fatto che fosse diverso, anche a livello testuale, dalla prima esecuzione, per quanto riguarda le variazioni, dà la misura della consapevolezza stilistica, unita ad un pizzico di sana follia, di questa eccellente cantante.
Nicola Cattò