MENDELSSOHN Integrale delle sinfonie Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, Coro Teatro Regio Torino, direttore Daniele Gatti soprano Sara Blanch mezzosoprano Michèle Losier tenore Bernard Richter maestro del coro Andrea Secchi
Torino, Auditorium Rai Arturo Toscanini, 11-20 gennaio 2023
In Daniele Gatti l’attitudine per le integrali sinfoniche è un fatto assodato, una nota distintiva nelle esecuzioni pubbliche rispetto a altri direttori. Ne sono un esempio quella dedicata a Beethoven avviata in autunno a Ferrara con la Mozart, mentre il forte legame creatosi con l’OSN Rai ha fatto di Torino una sede privilegiata di tale vocazione, nei nomi di Brahms, Schumann e, ora, Mendelssohn, senza dimenticare che, con altre orchestre, nell’ultimo ventennio il maestro milanese aveva qui guidato ben altri due cicli brahmsiani e uno beethoveniano. La scelta di misurarsi con un corpus completo impone uno strenuo esercizio concettuale dal quale le proposte parziali possono anche prescindere. Significa illuminare un percorso compositivo in tutte le sue pieghe, inquadrarlo storicamente, lasciarne antevedere le conseguenze per consegnare a chi ascolta una riflessione musicale ed extramusicale ancora più pregnante di un dotto saggio, perché veicolata dall’evidenza del suono. Lo scrupolo con il quale Gatti affronta queste imprese, accompagnato dalla corrispondenza assoluta palesemente percepibile tra il suo gesto (e quindi il suo pensiero) e la risposta dell’orchestra Rai, come sempre con lui in stato di grazia, compenetrano l’aspetto, “didattico” (per così dire) e quello emozionale in un amalgama prezioso e quasi unico. Quando l’attenzione cade sulle Sinfonie di Mendelssohn, possono aprirsi prospettive insospettate, che solo un ascolto completo e ravvicinato può suggerire. Concepite tra il 1824, il “fatale” anno della Nona beethoveniana, e il 1842, furono vissute in maniera talmente problematica dal loro autore da costituire un caso senza eguali. Mendelssohn si trovò a lottare con una serie di “aporie insolubili”, secondo la felice espressione di Oreste Bossini nelle acute note di sala. Prima fra tutte, l’oscillazione fra il convincimento che la musica dovesse fare a meno di contenuti espliciti e il suo esatto contrario, vale a dire accogliere le istanze narrative romantiche, ma nel rispetto dell’astrazione delle forme classiche al cui ideale non avrebbe mai potuto rinunciare. Dunque, un ossimoro. Da cui la durata dei processi compositivi, i ripensamenti e le abiure (parziali o addirittura totali, come per la Quinta), segno di uno stress creativo identitario, quasi una nevrosi, verrebbe da dire. La musicologia da tempo ha sfatato il luogo comune del musicista baciato dalla fortuna, culturalmente e materialmente privilegiato, talentuoso e acclamato, ma è pur vero che per il grande pubblico la sua immagine continua ad essere ancora quella cristallizzata nella “felicità” e nella spensieratezza dell’Italiana, pur sempre la più eseguita delle sue sinfonie, in vantaggio sull’affascinante Scozzese. Se le integrali sono ancora rare, è segno delle criticità di un insieme dalla logica sfuggente.
La premessa vale per sottolineare quanto interesse circondasse questa nuova proposta del direttore milanese, anche alla luce del più generale processo di revisione interpretativa del repertorio sinfonico ottocentesco. Nella sua ricerca la consapevolezza della filologia esecutiva si palesa innanzitutto nell’attento dimensionamento e bilanciamento dell’organico (nella Lobgesang gli archi erano cinquanta), rivelatosi perfetto in una sala in sé non facile. Lo stesso si potrebbe dire per la trasparenza e il nitore impeccabile del suono a fronte di qualsiasi intensità, che però è peculiarità ben nota della sua sensibilità, unita a una chiarezza espositiva delle linee e dei piani sonori che non cessa mai di stupire e che trova nel mondo sinfonico di Mendelssohn un terreno ideale. Attraverso le sue letture la rifinitura eccelsa delle parti orchestrali spicca con un’evidenza che esecuzioni magari più travolgenti e vorticose non riescono a dare. Particolarmente, i molti momenti di dialogo intimo tra archi e fiati sono stati condotti e assecondati con una cura sorvegliatissima delle relazioni e degli impasti timbrici e un’infallibile messa a fuoco della giusta cifra espressiva, da cui un eloquio di volta in volta delicato, aggraziato, tenero, toccante. Impossibile non coglierne la soggettiva impronta di un forte abbandono di irresistibile suggestione, che peraltro non porta con sé alcunché di episodico, dal momento che l’architettura d’insieme, non poco complessa nelle sinfonie caratterizzate da maggiori singolarità formali (ossia Quinta, Seconda e Terza, volendone rispettare la cronologia compositiva), è saldamente garantita dalla stessa tensione analitica e dalla duttilità di un fraseggio che nulla trascura delle tante indicazioni in partitura, in un’ottica dal tratto anche personale ma in cui omogeneità, equilibrio, leggerezza e assenza di enfasi sono gli aspetti veramente irrinunciabili. Non è inusuale in Gatti la comodità dei tempi adottati, in questo caso sensibilmente confermata anche solo da un rapido confronto con la discografia di ieri e di oggi (ma in parte in linea con il celebre modello di Abbado, più vibrante e acceso ma altrettanto generoso di luce sui dettagli). Una spazialità necessaria e consequenziale all’impostazione di un Mendelssohn inequivocabilmente classico, ma di una classicità visionaria e commovente, in cui le inevitabili urgenze romantiche sono liberate e fatte proprie con apparente serenità, all’insegna di una fideistica utopia della potenza unificante della musica. A differenza di altri interpreti, decidendo di non forzarle in chiave romantica né di accentuarne i contrasti, Gatti fa un eccellente servizio a queste straordinarie composizioni, nella corretta intuizione che un approccio lucido e riflessivo possa farne emergere la componente irrisolta e conflittuale, ma lasciandola sotto traccia, come forse sembrerebbe suggerire l’autore. Fin dal temperato ardore col quale Gatti ha avviato l’Allegro di molto della Prima si è compreso quale sarebbe stato lo spirito del percorso complessivo, portato avanti con assoluta coerenza. Sgravata dalle pesantezze drammatiche che talora le vengono imposte, è apparsa quell’incantevole atto di devozione a Haydn e Mozart che è, realizzato da un quindicenne prodigioso. Con Gatti si rivela sorprendente da capo a fondo, come nel magico Trio del terzo movimento, con l’incorporeo fluire dei legni e archi in pianissimo verso il sommesso pulsare del timpano che conduce all’esaltato ultimo tempo, dove l’incanto si è riprodotto nel passaggio degli archi in un pizzicato appena percettibile, con l’innesto purissimo dell’a solo del clarinetto; o nel fugato, scattante, vivo, senz’ombra di accademismo. A seguire la Terza, in cui la flessibilità del fraseggio è risultata determinante a fronte dell’incalzante volubilità dei climi espressivi, delle sfumature e delle atmosfere, che la rende innegabilmente la più romantica dell’insieme. E se si guarda a come Gatti ne risolve disinvoltamente il finale, evitando di caricare il suono, innervando la ritmica nel senso di una guizzante lievità, con la fanfara dei corni smagliante a fare da viatico a un’epica serenità, fa sorridere pensare che questa pagina potesse mettere a disagio un Klemperer, al punto da doverla modificare. Nella accorta impaginazione delle serate, la terza ha unito le due sinfonie che Mendelssohn non volle pubblicare, ossia la Quarta, molto familiare a Gatti che ne propone una lettura di scintillante virtuosismo, in cui una tinta di tenera nostalgia vela anche i momenti più spensierati; e la Quinta, per la quale verosimilmente, insieme alla Seconda, le sue scelte interpretative di fondo si sono più dovute misurare con aspetti peculiari di struttura e contenuto. Entrambe create con finalità celebrativa, dense di riferimenti spirituali e religiosi, di strana costruzione e, com’è noto, oggetto di opposta considerazione da parte del compositore. Nella Riforma, dove la stratificazione del materiale si infittisce, la luce ha bisogno di intensità, di potenza. Risolti i contrasti armonici dei primi tre movimenti, Gatti si immerge senza esitazioni nel groviglio contrappuntistico del Corale ultimo, sciogliendolo non in modo retorico, ma con infervorato trasporto. A confronto, appare meno problematica la Lobgesang, pur nella sua curiosa imponenza, in cui l’omaggio a Gutenberg e all’invenzione della stampa diventa metafora su testi biblici della conquista della luce della conoscenza. Nella sua semplicità quasi disarmante, quel motto dei tromboni capace di fissarsi nella memoria al primo ascolto per poi riapparire a più riprese fino all’ultimo, è indice eloquente di un impianto narrativo che Gatti tiene in tensione costante, nell’articolata sezione solo strumentale, così come in quella anche vocale, ancora più estesa e dove non tutto rifulge per originalità. Salvo poi trovarsi al cospetto di un colpo d’ala del genio mendelssohniano, il recitativo del tenore dal Libro di Isaia, in cui la domanda dell’uomo al “Guardiano-Profeta”, «Sta per finire la notte?», è pronunciata otto volte in un crescendo di disperazione meticolosamente definito, inframmezzato dalle impietose e asciutte interiezioni dei legni, quindi finalmente sciolto da un celestiale e icastico intervento del soprano. Un’autentica scena a tre voci, ad altissima intensità drammatica, esempio di teatro assoluto reso da Gatti senza risparmio di pathos, che da sola basterebbe a far desiderare più frequenti incontri con questa sinfonia. La spettacolare esecuzione è stata oggetto di vere ovazioni, con il coinvolgimento degli ottimi solisti fra i quali una menzione speciale va al soprano Sarah Blanch, per la sottigliezza espressiva e la qualità di un timbro cristallino e vellutato, oltre che al Coro del Teatro Regio diretto da Andrea Secchi, nella più convincente delle sue più recenti prove. Ma l’intero ciclo, dopo un avvio un poco in sordina, si è chiuso con un riconoscimento proporzionato all’eccezionalità dell’imperdibile esperienza.
Giorgio Rampone