BACH / BUSONI Ciaccona in re minore dalla Partita n. 2 per violino solo BWV 1004 BEETHOVEN Sonata n. 21 in do maggiore op. 53 “Waldstein” LISZT Parafrasi da concerto sull’opera Ernani di Verdi S. 432; Rapsodia ungherese n. 12 in do diesis minore S. 244/12 pianoforte Giovanni Bertolazzi
Milano, Villa Necchi Campiglio, 3 febbraio 2024
La nostra rivista ha seguito con costanza la carriera di Giovanni Bertolazzi, sia nelle sue due eccellenti pubblicazioni discografiche, entrambe dedicate a Liszt ed entrambe premiate con le 5 stelle, sia in alcuni suoi concerti, al Museo Teatrale della Scala e altrove (leggi qui e qui): in ogni occasione abbiamo apprezzato la consapevolezza tecnica e la personalità stilistica di un giovane artista che sapeva trovare una via personale al virtuosismo lisztiano, che non fatto solo di velocità e potenza, ma anche (e soprattutto) di ricerca del colore, di un’oratoria oggi forse non facile da comprendere ma che, nell’800, ha rivoluzionato non solo la tecnica dello strumento ma il rapporto stesso tra compositore, pianista e pubblico, inventando di sana pianta il genere del recital per un pubblico borghese (basta leggere i tanti articoli che il compianto Piero Rattalino ha scritto per questa rivista per capirlo compiutamente).
E il programma che Bertolazzi ha presentato nella raffinatissima, incantevole sede di Villa Necchi Campiglio a Milano, per la stagione della Società del Quartetto, davanti ad un pubblico numerosissimo e appassionato, era senz’altro ambizioso: ai turgori neobarocchi della Ciaccona di Bach-Busoni seguiva una sonata-cardine del cosiddetto secondo periodo beethoveniano, la “Waldstein”, per chiudere – prima dei bis – con due pièces de résistance lisztiane, la parafrasi su Ernani e la Rapsodia ungherese n. 12 (e non capirò mai, in riferimento a quest’ultima, che gusto ci sia a dannarsi l’anima su pezzi di improba difficoltà e modestissimo valore musicale: ma questo è solo un parere personale…). La Ciaccona vedeva un dominio assoluto, da parte di Bertolazzi, non solo delle alte richieste tecniche, ma soprattutto un perfetto equilibrio tra la macrostruttura, per così dire, ossia la dimensione organistica, quasi orchestrale, degno corrispettivo sonoro di quelle costruzione tardoottocentesche di scuola neobarocca, e il fitto intreccio contrappuntistico, sottolineato da una pedalizzazione sempre misurata e da un gioco dinamico “a terrazze” che rendeva perfettamente l’idea che Bertolazzi ha della pagina. Conseguente era, quindi, un’estrema libertà nello stacco dei tempi unita però ad un rigore assoluto nella gestione delle linee: il che mi fa pensare che questo Bach/Busoni (ovviamente più Busoni che Bach…) sia per il pianista veneto una sorta di sbocco ideale della scrittura lisztiana, e l’idea è del tutto condivisibile.
Quanto alla Waldstein, mi era capitato di ascoltarla pochissimi giorni prima a Lugano da parte di un – sulla carta – mostro sacro come Rudolf Buchbinder, che aveva confermato come le etichette siano appunto solo indicazioni assai poco veritiere (al di là del clamoroso buco di memoria patito dall’austriaco…). Bertolazzi, invece, ha mostrato una compiuta maturità di interprete, sia in un fraseggio che sembrava ripensarsi battuta per battuta, nelle regolari riprese del tema del primo movimento, sia trovando un colore e un accento “parlante” nel singolarissimo Adagio molto, da cui il tema del terzo movimento si sollevava lentamente e come scuotendosi da una caligine mattutina (d’altronde, una volta si chiamava questa sonata “L’aurora”). E il rondò finale univa un senso cristallino della “dizione” strumentale ad una sorta di felicità sonora vieppiù crescente, che con qualche ulteriore rifinitura (specie nelle ultime pagine) potrà portare a una lettura di assoluto livello.
Infine, Liszt: e qui Bertolazzi gioca in casa. Certo, il pubblico è stato entusiasmato dalla Rapsodia ungherese n. 12, dove la lezione di Cziffra sembrava assorbita in pieno nel suo contrasto esasperato tra un cantabile in cui il rubato estremo coglieva il limite esatto tra libertà espressiva e cattivo gusto, mai sfociando in quest’ultimo, e le diavolerie tecniche più astruse; ma ho apprezzato ancora di più la Parafrasi sull’Ernani verdiano (che si basa sul tema di “O sommo Carlo”, il concertato finale del terzo atto dominato dalla voce del baritono), in cui Bertolazzi esaltava sia la dimensione operistica d’origine, con un senso davvero acuto della vocalità, dei respiri, del legato, sia il “velo” di virtuosismo brillante eppure non superficiale apposto da Liszt, con un senso di sprezzatura e controllo davvero entusiasmanti. Due bis, che sono per lui consueti: l’iperbolica trascrizione di Cziffra della Valse triste di Ferenc von Vecseye la Danza rituale del fuoco di Manuel de Falla, forse troppo legata al fantasma di Rubinstein per essere ancora proponibile. Grandissimo successo per un talento che sta mantenendo ogni lusinghiera promessa.
Nicola Cattò