PUCCINI La rondine V. Varriale, N.V. Yacobi, G. Salas, E. Casari. M. Rosiello; Coro Sinfonico di Milano e Orchestra Filarmonica Italiana, direttore Jordi Bernàcer regia Stefano Vizioli coreografie Pier Luigi Vanelli scene Cristian Taraborelli costumi Angela Buscemi
Novara, Teatro Coccia, 27 settembre 2024
La rondine: opera di leggerezze e trasparenze, lieve come un velo di tulle ma percorsa da un’amarezza di fondo. Opera sfuggente, cosa da nulla, in apparenza, scritta con mano magistrale, con una ricchezza di dettagli strumentali e sottolineature, tutte in punta di nota, che arrivano a graffiare. Sì, perché La rondine graffia l’anima e lascia negli spettatori la sensazione di una catarsi incompiuta, con il paradosso essere di un capolavoro – piccolo, ma pur sempre capolavoro – immerso nel Liberty della Belle Époque (la prima andò in scena all’Opéra Garnier di Monte-Carlo il 27 marzo 1917) eppure moderno nell’invenzione musicale, e non solo perché Puccini all’onnipresente ritmo di valzer affianca con una commistione tutta novecentesca tra musica colta e di consumo frammenti di tango, rag-time e fox-trot, ma anche perché la musica de La rondine è come un bisturi che viviseziona i sentimenti nella sua chiarezza di linee e di timbri fino a un finale sospeso nel nulla, con i rintocchi di campane a mescolarsi alla voce della protagonista che si perde in pianissimo fuori scena, quasi in un’anticipazione di un altro finale fatto di silenzio, sia pure stravolto fino alla follia, quello del Wozzeck di Alban Berg.
È opera difficile da interpretare, La rondine, difficile nei suoi equilibri dinamici, nei suoi temi scorrevoli e cangianti ma pieni di sottintesi, nella stretta correlazione della musica con i gesti sulla scena. Al Coccia va il merito di averla riproposta, per la prima volta in assoluto nella storia del Teatro novarese, in questo anno pucciniano in una nuova produzione realizzata insieme alla Fondazione Arena di Verona, dove a gennaio è andata in scena al Teatro Filarmonico, anche se con un cast, tenore a parte, tutto diverso, e soprattutto va il merito di averlo fatto con molto rispetto verso le intenzioni del compositore. Ne è uscito uno spettacolo delizioso e malinconico, dove tutto funzionava come doveva, a partire dalla regia per così dire minimalista di Stefano Vizioli, che ha spostato l’ambientazione dell’opera dalla Belle Époque agli anni Cinquanta del Novecento, sgombrando così subito il campo dall’equivoco di un’opera-bomboniera e calandone la vicenda nella modernità; La rondine, infatti, è la storia di una mantenuta d’alto bordo costretta a rinunciare all’amore vero in una società borghese che marchia di infamia le “donne perdute”, risultando in questo senso, sul piano strettamente drammaturgico, una sorta di copia sbiadita de La traviata, ma è anche e soprattutto un’opera sull’amore e i suoi pericoli, la cui conclusione risulta ben poco rassicurante visto che l’amore sentimentale deprecato dalla cameriera Lisette nelle battute iniziali si rivela inadatto alle tempeste della vita, visto che la storia appassionata tra Magda Ruggero finisce nel nulla, mentre l’amore facile e leggero tra la stessa Lisette e il poeta Prunier riesce a resistere in virtù della sua inconsistenza e della sua adattabilità alle situazioni della vita.
Partendo dalla questa premessa, cioè che La rondine sia opera moderna, Vizioli ha reso molto credibili i personaggi lavorando minuziosamente sulla recitazione a partire dalla musica, con una sensibilità e umiltà che pochi registi oggi mostrano di avere, presi dalla smania narcisistica di lasciare ovunque e a tutti i costi un segno di sé. Ogni movimento scenico dei personaggi, ogni gesto e ogni espressione del volto nascevano dalla partitura, come è stato evidente soprattutto nelle scena conclusiva quando l’ingenuo Ruggero fa leggere a Magda la lettera in cui ha la madre acconsente al loro matrimonio e lei, che non è affatto «buona, mite e pura» come la futura suocera suppone, comprende che quella lettera non è la consacrazione ma la condanna del loro amore, perché la costringerà a uscire allo scoperto rivelando a Ruggero il suo passato. La dolcezza triste e rassegna della musica sottolinea quasi con pudore questo turbamento che in questa messa in scena è subito passato alla gestualità della protagonista, nel suo evitare gli sguardi dell’innamorato e nel suo volto malinconico.
Va detto che nelle note di regia Vizioli interpreta la scelta di Magda come una scelta di libertà nella prospettiva di un’emancipazione femminile che a me sembra del tutto estranea al mondo culturale e sociale di Puccini. Confesso di nutrire molta diffidenza verso le regie operistiche del repertorio romantico orientate ideologicamente in chiave moderna, anche perché nell’estetica dell’opera lirica romantica, dalla quale Puccini sostanzialmente non esce, la donna è sempre una vittima da sacrificare e il suo destino è quello di perdersi, potendosi redimere solo con la morte o la follia: la scelta di Magda, che in questa storia resta in vita, è una scelta obbligata e non una scelta di libertà. È pur vero che Vizioli riesce a portare avanti la sua idea di fondo senza forzatura ideologiche e costruendo molto bene i personaggi, quindi se Ruggero è un amante ingenuo e superficiale lo deve essere anche scenicamente e infatti entra impacciatissimo e disorientato e impacciatissimo resta per tutta l’opera.
A cantanti, tutti giovani e tutti debuttanti nel ruolo tranne il tenore Galeano Salas, già Ruggero nella messa in scena a Verona di cui sui è detto, va il merito di aver aderito con convinzione a questa impostazione registica, con esiti interessanti anche perché questo cast vocalmente si è dimostrato all’altezza. Era deliziosa la Lisette del soprano Nofar Veronica Yacobi, la quale ad una voce amabile e leggera affiancava non comuni doti di attrice, una Lisette che cinguettava con finezza e civetteria con il Prunier del tenore Enrico Casari, non sempre incisivo nei momenti più concitati e a tratti un poco forzato nell’emissione (“Forse, come la rondine”, nella scena della lettura della mano nel I atto) eppur capace di rendere fino in fondo la natura autentica del suo personaggio, quello di un dandy bizzarro e pieno di iniziativa. Era compassato come deve essere, vocalmente e scenicamente, il Rambaldo del baritono Marcello Rosiello, mentre la coppia regina dell’opera, il soprano Valentina Varriale e il tenore Galeano Salas, ha saputo dare profonda autenticità drammaturgica ai personaggi di Magda e Ruggero. Lei ha tutto quanto serve per rendere gli slanci appassionati e la leggerezza da “grisette” del suo personaggio, dalla voce morbida e pastosa alla pulizia dell’emissione sugli acuti fino alla sensuale flessuosità del canto, quasi da operetta, nei momenti più danzanti, lui ha una bella voce, chiara e pulita, ma è ancora un poco acerbo nello scavo interpretativo come si vedeva soprattutto nei duetti, dove lo spessore drammaturgico della Varriale finiva per prevalere; è stata comunque una bella esperienza poter ascoltare un cast giovane così motivato, anche per quanto riguarda i comprimari, tutti perfettamente calati nella vivacità ritmica delle scene.
Sul podio Jordi Bernàcer, anche lui al debutto nel titolo, ha trovato un ottimo equilibrio tra definizione dei dettagli e amabilità del fraseggio, in una lettura agile e frizzante. Possiede un bel gesto il direttore spagnolo, un gesto che si traduce in un fraseggio molto fluido, ed era sempre attento a calibrare timbri e dinamiche (solo qualche dettaglio sfuocato nel I atto) in una partitura dalla insidiosa trasparenza. Certo, quando i cantanti si ritrovavano per ineludibili esigenze sceniche appena un poco lontani dall’orchestra venivano coperti dall’orchestra, ma la colpa va attribuita all’acustica del Coccia che funziona bene, ma solo a patto che si canti sempre sul proscenio. Per il resto l’equilibrio tra buca e palcoscenico c’era tutto, anche per la qualità dei due complessi milanesi impiegati per l’occasione, il Coro Sinfonico di Milano e l’Orchestra Filarmonica Italiana, la cui precisione esecutiva e asciuttezza nei timbri ci ha piacevolmente sorpreso.
Luca Segalla
Foto: Mario Finotti