STRAUSS Ariadne auf Naxos S. Schneider, K. Bӧrner, L. Lokaichuk, M. Rosiello, S. Haagen, C. Collia, O. Dyadiv, C. Notarnicola, E. Vacchi, G. Baveyan, A. Galli, P. Harl, M. Frey, V. Sazdovski, F.S. Venuti, D. Giorgelè, G. Sorrentino; Orchestra del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, direttore Enrico Calesso regia Paul Curran (ripresa da Oscar Cecchi) scene e costumi Gary McCann luci Howard Hudson
Trieste, Teatro “G. Verdi”, 16 febbraio 2024
Non è avvezzo il Teatro Verdi a manifestazioni di giubilo sfrenato da concerto pop come quelle che hanno accolto la prima di questa smagliante Ariadne auf Naxos, a compensare qualche vuoto in sala ed a premiare il giusto merito della produzione. Capolavoro di una civiltà al crepuscolo nel “mondo di ieri”, gioiello dell’ambiguità perfetta nell’”arte della vita e della scena” (come scriveva il grande Franco Serpa nel saggio ripubblicato nel programma di sala), Ariadne è titolo che andrebbe periodicamente imposto come modello di una bellezza perduta, di un “gusto” naufragato. Come alla corte del parvenu rozzo ed arrogante che detta gli ingredienti di quel pastiche d’arte: trasfigurato da Hofmannsthal e Strauss in una delle più geniali invenzioni del Novecento. Per un regista di originale sapienza narrativa come Paul Curran è un invito a nozze immaginare il Prologo dell’Ariadne in una società culturalmente degradata che subito riconosciamo e nella quale si innesta il mirabile gioco di quella finzione che sa essere più vera della realtà. In un salone di strepitoso modernismo kitsch (ideato da Gary McCann) si accalca tra gli spaccati scenici mobili dei camerini tutto un campionario umano tipizzato magistralmente, frutto di una preparazione che, dopo il collaudo bolognese, è stata riattivata qui a Trieste da Oscar Cecchi, cui si deve il rimontaggio dello spettacolo.
Nel litigioso bailamme di scena e backstage, di attori e figuranti è scontato qualche eccesso ed è comprensibile che un poco si smarrisca il turbamento del Compositore, ruolo chiave del Prologo, figura che dovrebbe reincarnare la personalità di un Oktavian artista in angustie (qui la giovane danese Sophie Hagen, più che il temperamento, ci mette eleganza e flessuosità vocale). La dilagante fantasia registica persegue, nella rappresentazione dell’opera “contaminata”, la magia opposta e disvelata del teatro. Lo spazio, ora invaso da un impianto baroccheggiante di tinte lunari-cilestrine e abitato da fauni e angiolini a proteggere la solitudine della protagonista, è adesso violato gustosamente, da uno sfacciato cubo da discoteca, sul quale può esibirsi la maliziosa antagonista con tutto il suo seguito di maschere. Il gioco toglie un poco all’inizio la delicatezza dell’incanto vaporoso evocato dalle Ninfe e l’alone elegiaco del lamento di Arianna, ma subito la magia si ricompone nell’oreficeria di Strauss, screziata da quell’organico strumentale senza precedenti, in simbiosi con il sortilegio drammaturgico. Migliori condizioni non si sarebbero potute desiderare per il felice debutto sul podio come direttore musicale stabile di Enrico Calesso, secondato dalla vivezza dell’orchestra. Dinamiche di acuminata leggerezza, nitidezza di fraseggio, equilibrio dei piani sonori rivelano un lavoro analitico ed una concertazione che si fa apprezzare sia nel canto di conversazione sia nell’insidioso finale dell’opera dove l’arrivo di Bacco sembra “tentare” lo stesso Strauss verso l’empito antico del suo sinfonismo e forzare la stessa natura di quest’opera delicatissima. Deliziosa poi la complicità di orchestra e palcoscenico nel movimento “a ballo” delle maschere (“Es gilt, ob Tanzen / ob Singen tauge”) in cui la regia occhieggia allo spirito arguto del variété.
Compagnia di canto di prim’ordine, assortita a meraviglia (la sola caratterizzazione incolore sembra quella del maggiordomo nel Prologo, che è poi l’unica parte parlata voluta dagli autori). Se la scintillante, agguerritissima coloratura di Liudmila Lokaichuk si prende meritatamente l’ovazione più vibrante della serata al termine della funambolica tirata di Zerbinetta (una delle più lunghe e perigliose di tutto il repertorio operistico), la Arianna di Simone Schneider è assolutamente sontuosa: densità e bellezza di smalto in un’impressionante arcata di suono degna dei grandi ruoli straussiani nonché di Fidelio o di Sieglinde. Lo stesso Bacco Heldentenor di Heiko Bӧrner supera con wagneriano onore la prova micidiale mimetizzata nei pochi ma insidiosi minuti del finale. Eccellenti tutti i gruppi del folto cast:dall’esuberanza delle maschere (Christian Collia, Gurgen Baveyan, Mathias Frei, Vladimir Sadovski) alla qualità d’impasto vocale esibita da Olga Dyadiv (Najade), Chiara Notarnicola (Echo), Eleonora Vacchi (Driade). Ancora, nel Prologo, da menzionare (oltre al citato Komponist della Hagen) il baritono Marcello Rosiello come maestro di musica. Tutti chiamati alla fine a condividere, con gli artefici dello spettacolo, un successo al calor bianco. Con acclamazioni speciali per la Schneider, la Lokaichuk e il direttore Enrico Calesso.
Gianni Gori
Foto: F. Parenzan