ZANDONAI Francesca da Rimini M.J.Siri, M. Puente, G. Viviani, L. Ganci, A. Kolosova; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Fabio Luisi regia David Pountney scene Leslie Travers costumi Marie Jeanna Lecca
Milano, Teatro alla Scala, 15 aprile 2018
Il trentino Riccardo Zandonai provava per la vicenda di Paolo e Francesca, gli sfortunati amanti medioevali ricordati così compassionevolmente nel V canto dell’Inferno dantesco, una sorta di attrazione fatale, se è vero che vi si accostò già solo sedicenne, tra il 1899 ed il 1900, per una cantata per tenore e orchestra. Vi tornò nel 1914 per il Teatro Regio di Torino su un apprezzato libretto di Tito Ricordi (cui era stato segnalato da Boito) desunto dalla tragedia di d’Annunzio (interpretata al suo apparire nel 1901 nientemeno che dalla Duse), comparsa però già sulle scene nel 1904 con le musiche di Antonio Scontrino e nel 1907 con quelle di Luigi Mancinelli.
Galeotto per l’incontro col Vate pescarese era stato Tito Ricordi, dannunziano convinto, che aveva poi guidato il sempre collaborativo rapporto tra Zandonai, allievo di Mascagni, e uno stranamente conciliante d’Annunzio, anche se una vera e propria amicizia tra i due non scoccò mai. Non poco pesava sulla fantasia del musicista trentino il fascino di racconti medioevali, come il duecentesco Tristano e Isotta cantato splendidamente da Wagner, e con esso l’intento di raffigurare un mondo lontano attraverso modalità arcaiche e strumenti d’epoca (liuti, viola pomposa e pifferi).
L’opera è tornata per la decima volta in un secolo alla Scala, dove mancava da quasi 60 anni (nel 1959 l’aveva diretta Gavazzeni con Magda Olivero e Del Monaco), in concomitanza con l’insediamento del Comitato Nazionale per le celebrazioni dei 700 anni della morte di Dante, che opererà da ora sino al 2021. Per una partitura così densa ed a forte tensione drammatica, una garanzia era la bacchetta di un direttore esperto come Fabio Luisi che riusciva a far brillare l’orchestra scaligera nei molti momenti esagitati, così come in quelli lirici. L’allestimento nuovo di zecca era a firma del britannico David Pountney (il cui Mosè in Egitto è andato in scena da non molto al San Carlo di Napoli) con, nel ruolo del titolo, il soprano uruguaiano Maria José Siri, già apprezzata Butterfly per la inaugurazione scaligera del 2016. Un ruolo di virginale adolescenza, pur affrontato vocalmente con apprezzabile bravura, per il quale non sembra possedere tuttavia la personalità scenica adeguata. L’argentino Marcelo Puente dava voce ad un impetuoso e irreprensibile Paolo il bello, ruolo tenorile di eccellenza con non pochi trabocchetti, mentre il baritono lucchese Gabriele Viviani era un Gianciotto lo sciancato sufficientemente credibile e Luciano Ganci un malvagio Malatestino ben caratterizzato.
Sorprendono le scelte, a volte sopra le righe, del regista Pountney, che al solito opta per un miscuglio tra un medioevo stilizzato e l’epoca liberty di d’Annunzio, evocata da cannoni che sparano a salve nel finale del II atto e addirittura un ingombrante biplano in scena non dissimile da quello del dannunziano volo su Vienna. Il tema dominante della contrapposizione tra amore e guerra, mondo idealistico femminile della corte segnato dall’arte e dalla letteratura e quello maschile della battaglia e della sopraffazione violenta è ben significato da una enorme statua di donna mollemente adagiata, che viene poi sfregiata da aguzzi giavellotti: il candore della biancovestita Francesca stuprato dalla ottusa violenza maschile. Paolo entra in scena per la prima volta con la sua armatura su un cavallo tutto dorato con un’aura sacrale, quasi da Giovanna d’Arco in armi. Le funzionali scene di Leslie Travers mostrano una architettura cilindrica concava per la corte di Francesca e convessa (con tecnica girevole) per gli spalti su tre piani della torre densa di armigeri (eccellente il coro guidato da Bruno Casoni). Molti gli elementi fortemente simbolici, come il gigantesco libro galeotto dei romanzi cavallereschi che diventa alcova degli amanti e la lancia del duplice omicidio finale che resta sospesa in alto come una spada di Damocle. La nitida regia di Pountney conferisce ad ogni atto il suo giusto colore, rendendo ragione alla bellezza musicale dell’opera, una vera riscoperta, di grande modernità e persino attualità, in cui si leggono eredità musicali wagneriane (la melodia continua) e straussiane (il pathos continuo) ma pur ancora fortunatamente all’insegna di una densa cantabilità, seppur esasperata, italiana. In sala anche Raina Kabaivanska, già splendida Francesca ma non scaligera.
Lorenzo Tozzi