VERDI Don Carlo M. Polenzani, A. Pérez, M. Pertusi, L. Tézier, E. Garanča, A. Tsymbalyuk; Orchestra e coro del Teatro di San Carlo, direttore Juraj Valčuha regia Claus Guth scene Etienne Pluss costumi Petra Reinhardt luci Olaf Freese
Napoli, Teatro di San Carlo, 1° dicembre 2022
Questa nuova produzione di Don Carlo del Teatro di San Carlo (nella versione modenese in cinque atti in italiano), era tutta volta a restituirci la cupa bellezza di un’opera che è tra le più amate di Verdi: Ma se ci è piaciuta, e a tratti ci ha anche ammaliato, più che per il tandem Juraj Valčuha direttore musicale e Claus Guth regista, è stato per merito di un cast vocale d’eccezione in almeno tre dei cinque principali personaggi.
Don Carlo è un lavoro tenebroso, con improvvisi tagli di luce che lo fanno assomigliare ad un quadro di Caravaggio: vi si intrecciano tormenti privati, conflitti politici e dispute teologiche, con un finale ad alta intensità drammatica che lascia agli spettatori il dubbio su come veramente si conclude.
Un tema domina sugli altri: la disperata ricerca di una soluzione del conflitto fra il dovere verso la sfera pubblica e il diritto dei singoli a cercare la propria felicità. Questo dilemma aveva già tormentato i protagonisti della Forza del destino, ma anche Boccanegra e Riccardo nel Ballo in maschera. Come negli altri casi, in Don Carlo il conflitto si risolve nella scelta consapevole dell’infelicità: Elisabetta si piega alla ragion di stato, accetta di sposare Filippo II, rinunciando all’amore per Don Carlo.
In questa produzione, il drammone storico-politico-sentimental-teologico rimaneva molto sullo sfondo: Guth si è orientato verso una lettura intimistica, psicanalitica, con un richiamo (potremmo dire immancabile) ai complessi edipici di Don Carlo verso la matrigna e verso il padre.
Il motore drammaturgico della messinscena era il nano attore Fabián Augusto Gómez, onnipresente sul palco: ora giullare di corte, ora pertichino che scimmiottava i protagonisti, poi amoretto con le ali tra i due innamorati, sposa col velo bianco tra le donne del coro in velo bianco, frate incappucciato tra i frati incappucciati: era lo spiritello maligno che guidava la mente di un Don Carlo immaturo e insicuro, una proiezione del suo inconscio, il suo malefico spirito guida, si potrebbe dire, in questa lettura registica un po’ freudiana e un po’ junghiana e (a tratti) anche un po’ ruffiana verso standard culturali scontati; ma comunque plausibile e di buona godibilità.
Questo diavoletto che si affaccendava perennemente in scena rappresentava il fil rouge narrativo dell’allestimento, che si svolgeva tra le tre pareti grigie e spoglie della scenografia di Etienne Pluss; la quale diventava (con pochi arredi, luci basse, qualche filmato in bianco e nero di Carlo e Rodrigo bambini) di volta in volta: bosco, sala reale, camera da letto di Filippo, coro di legno che ospitava i monaci, tomba di Carlo V, riproponendo l’atmosfera tenebrosa della Spagna stretta nella morsa della Grande inquisizione, la quale trionfa nella grande scena dell’autodafé.
Dal punto di vista musicale, il basso Michele Pertusi nei panni di Filippo II era regale e potente, “verdiano” quant’altri mai, sapendo anche mostrare gli indugi e le paure del personaggio. Ha cantato “Ella giammai m’amò” con sincera partecipazione emotiva, più di rabbia contenuta che di scoramento, con un legato e un fraseggio quasi sospirato, delicatissimo.
Filippo era letteralmente soggiogato dal Grande Inquisitore, qui Alexander Tsymbalyuk che ha cantato con voce tenebrosa, stretto tra quattro ballerini in nero e senza volto che ne aumentavano la tetraggine. Mattew Polenzani, nonostante i risultati di gran pregio raggiunti in altri ruoli, esibiva per Don Carlo un timbro poco adatto al personaggio. Chiamato a sostenere una vocalità sicuramente difficile, all’inizio non sembrava avere il colore giusto nella emissione, che però poi gradualmente si è illimpidita. Riguardo al primo duetto insieme ad Ailyn Pérez, ad entrambi va ascritta poca naturalezza nel fraseggio che suonava un po’ artificioso. Verso la fine Polenzani è migliorato, ma il suo Don Carlo ha rischiato sempre di restare in secondo piano, rispetto agli altri due ruoli maschili principali.
Nei panni di Elisabetta, la Pérez ha mostrato di avere un’ampia gamma di possibilità vocali, ma sempre molto timidamente espresse, quasi che la ritrosia del personaggio a mostrare i propri veri sentimenti influenzasse la resa vocale del soprano.
In quanto a Rodrigo, che incarna nobiltà d’animo, altruismo e dedizione alla causa dei fiamminghi, l’interpretazione di Ludovic Tézier è stata impressionante, e non c’è attualmente cantante migliore per questo ruolo. Un colore denso ma nitido il suo, accompagnato da dinamica e fraseggio sapientemente dosati.
Elīna Garanča qui era la principessa Eboli (senza benda sull’occhio) ma ha dimostrato di essere una vera regina dal punto di vista del canto; il suo timbro riconoscibilissimo, bello e avvolgente, il controllo pieno del fiato, le colorature precise a cominciare dagli attacchi fino agli acuti, e soprattutto il carisma, l’hanno confermata una star internazionale di prima grandezza.
Un particolare elogio va al Coro del San Carlo preparato da José Luis Basso. Alla guida dell’Orchestra, Juraj Valčuha ha affrontato la musica di Verdi col suo tipico aplomb austroungarico, con un suono che appariva troppo poco coinvolto emotivamente, lento e nitidamente scolpito: quasi marmoreo, si potrebbe dire.
Lorenzo Fiorito
Foto: Luciano Romano