Nonostante la nota diceria che l’opera porti sfortuna, alla Scala le recite del Macbeth si sono concluse senza problemi: certo, all’ultima recita sono apparse le mascherine per qualche corista, nonché per tutti i danzatori e i figuranti, ma la serata si è conclusa fra le ovazioni di un pubblico che gremiva il teatro, e con la simpatica “coda” della premiazione, da parte della figlia del mitico Piero Cappuccilli, di Luca Salsi, per un’onorificenza in memoria del padre.
Dalla prima recita (di cui ho riferito qui) all’ultima sono cambiati gli interpreti di Banco e della Lady: sostituzioni previste (la seconda) o dell’ultimo giorno (la prima). Jongmin Park fa quello che può: il suo vocione artificialmente inchiostrato non può essere paragonato neppure per gioco alla nobile, insinuante fluidità di canto di Ildar Abdrazakov. Ekaterina Semenchuk (già esperta della parte), al contrario, “fa” una Lady molto diversa da quella della Netrebko (consapevolmente o meno): meno aggressiva, dominatrice, ferina, e molto più fragile, nevrotica, sofferente. La vocalità è generosa, anche se ovviamente meno ricca a livello timbrico e di mera potenza vocale rispetto alla collega, e l’uguaglianza dei registri ammirevole: dai tanti acuti ricchi di squillo (anche quel Do all’unisono colla Dama nel Finale primo, che Anna ha sempre omesso) ad un registro basso che solo occasionalmente si rifugia nel petto. Certo, la coloratura non è il suo forte, ma l’ispida cabaletta d’entrata è superata con classe: e ancora meglio sono stati “La luce langue” e, soprattutto, un Sonnambulismo cesellato parola per parola, con un indugio nei tempi perfettamente sostenuto da Chailly. Peccato per il re bemolle quasi completamente mancato: ma la sua è una prova di alto livello.
Sempre eccellente Luca Salsi, ancora più libero e disinvolto, oltre che in gran forma vocale, mentre Francesco Meli ha replicato il suo inappuntabile Macduff. Ma quello che è cambiato veramente, dalla prima all’ultima recita, è l’apporto dell’orchestra diretta da Riccardo Chailly: se recensendo la prima serata avevo rilevato la grandissima qualità della concertazione, ma anche una certa prudenza, una diffidenza nel “lasciarsi andare” verso le dimensioni più profonde, più inesplorate di questa vertiginosa partitura, beh, ieri sera ho trovato tutto quello che desiderato. Sonorità ora “volgari” ora aggressive, una libertà totale sia nel rapporto col palcoscenico che all’interno di una singola frase musicale (senza però cadere nell’anarchia ritmica), folgorazioni improvvise che squarciavano l’immaginazione dello spettatore: e sono stati soprattutto i primi due atti a beneficiare di questa guadagnata libertà, di questa voglia di fare musica senza i timori e le rigidità del sette dicembre. Grande serata, grande teatro: proprio vero, non bisognerebbe mai andare alle prime, e soprattutto alla “prima delle prime”. E ora dita incrociate per i Capuleti, che non facciano la fine della Bayadère, travolta dai contagi di un corpo di ballo ancora troppo non vaccinato.
Nicola Cattò