VERDI Rigoletto P. Pati, L. Tézier, N. Sierra, A. Cacciamani, N. Surguladze, C. Berthon, G. Sagona, Li Danyang, R. Accurso; Orchestra e coro del Teatro di San Carlo, direttore Lorenzo Passerini
Napoli, Teatro Politeama, 24 gennaio 2023
A causa dei lavori di ristrutturazione in corso al San Carlo (ne avranno fino al 31 marzo), i melomani napoletani si devono spostare a poche centinaia di metri, al Teatro Politeama.
Si apre, questa trasferta, con un Rigoletto in forma di concerto, o si potrebbe dire di semiconcerto, visto che, nonostante lo spazio ristretto e gli abiti da recital, gli artisti in scena riescono ad accennare con credibilità e pregnanza drammatica, movimenti e gesti con cui accompagnano e sostengono uno dei capisaldi dell’universo verdiano: un pezzo di teatro potente, pieno di risonanze shakespeariane e di esprit de finesse francese. Del resto, Rigoletto (tratto com’è noto da Le roi s’amuse di Victor Hugo) è quanto di più vicino a quel Re Lear che Verdi ha sempre detto di voler scrivere ma che non ha mai fatto.
Tutto è perfettamente al suo posto in questa rappresentazione. Tézier fa vivere al suo personaggio tutte le enormi possibilità drammatiche che contiene, dal sulfureo rancore all’agognata, rabbiosa vendetta, ma anche a una sorprendente tenerezza amorosa per sua figlia. E il baritono francese riesce a dispiegare tutto questo con una grande performance, con la sua voce baritonale dai toni meravigliosamente, armonicamente variegati, senza mai eccedere né, al contrario, trattenersi. Che si trovi a suo perfetto agio nella pelle del buffone di corte è lampante; riesce a mostrare burbera sollecitudine nella preoccupazione paterna in “Veglia, o donna”, ma si adegua al timbro più delicato della figlia nello squisito, lento finale del duetto, per concludere con vera disperazione sul corpo di Gilda nella scena finale. Ma il vero, corrusco tumulto emotivo arriva nell’attacco ai cortigiani e nel grido di vendetta, che giustamente ha fatto venir giù il teatro alla fine del secondo atto, con la scontata concessione del bis.
Pene Pati ha un timbro tenorile squillante perfettamente a misura per un Duca di Mantova che non è solo irresponsabile ma decisamente cinico sin dall’inizio. Il suo Duca è a volte tenero e possessivo, affascinante e scaltro, ma mai sinceramente angosciato, neanche nella scena d’inizio del secondo atto (“Ella mi fu rapita”). Sebbene a volte non perfettamente a suo agio col fraseggio, Pati porta vera seduzione nel suo ruolo, e non solo per il corteggiamento fintamente amoroso con Gilda, alla fine del primo atto, o con la prostituta Maddalena nel terzo atto.
Da parte sua, Nadine Sierra si è dimostrata una Gilda inarrivabile, cantando con straordinaria bellezza di tono e piena profondità di sentimento: davvero una delle rese più notevoli del personaggio da parte di un soprano. Nei panni della ragazza tradita ma eroica, ha offerto forse la performance con più venature vocali, caratteriali ed emotive della serata. Ogni suo gesto o nota aggiungeva un tassello che si rivelava indispensabile alla definizione della passionale adolescente, dalle tenere fantasie amorose di “Caro nome”, alla vana, ingenua opera di dissuasione verso il padre che vuole vendicarsi, alla determinazione a compiere il sacrificio fatale di sé, alle frasi appena percepibili quando nel sacco morente chiede al padre di perdonare. La ascoltiamo, e crediamo che tutto sia vero, e ci lasciamo commuovere (“oh quante volte, oh quante” questo accade in teatro, ed è il premio inestimabile per chi assiste a un’opera lirica ben fatta).
Delle altre voci, Nino Surguladze è una Maddalena di gran classe, dalla presenza insieme forte e sensuale, assertiva e manipolativa nelle schermaglie amorose durante il quartetto “Bella figlia dell’amore”, come anche durante la tempesta, quando convince il fratello a sostituire la vittima designata con chi si avventurasse nonostante la tempesta nella locanda (“Se pria ch’abbia il mezzo la notte toccato”).
Alessio Cacciamani ha offerto uno Sparafucile di prim’ordine, grave come si conviene, sondando con sicurezza le profondità del personaggio. I cortigiani, guidati dall’ottimo Marullo di Roberto Accurso, svolgono il loro lavoro alla perfezione. Matteo Borsa era Li Danyang, il Conte di Ceprano Ignas Melnikas. Il Monterone di Gabriele Sagona si è imposto come una presenza drammatica convincente.
Una menzione speciale va agli artisti del Coro del San Carlo, guidati da José Luis Basso, che con energia e precisione hanno presentato un suono imponente e coeso nei momenti culminanti, mentre nella tempesta del terzo atto producevano sonorità inquietanti, come si conviene.
Sul podio, Lorenzo Passerini ha diretto la partitura con misurata intensità e bellezza sensuale, dando di volta in volta il necessario spazio alle diverse sezioni strumentali e ai solisti (tutti bravissimi), ma ancor di più mettendo l’ottima orchestra del San Carlo al servizio di uno strepitoso cast vocale.
BERLIOZ La Damnation de Faust J. Osborn, D. Barcellona, I. Abrdazakov, L. Morvan, L. Ulloa; Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo, direttore Pinchas Steinberg Maestro del Coro José Luis Basso
Napoli, Teatro Politeama, 7 febbraio 2023
Dopo l’acclamatissimo Rigoletto, la trasferta del San Carlo al Politeama è continuata con La Damnation de Faust, e si concluderà con Macbeth, prima di rientrare nel Massimo ristrutturato, sperabilmente ad aprile.
Ispirandosi al Faust di Goethe nella traduzione di Gérard de Nerval, Hector Berlioz creò La Damnation nel 1846, dopo aver composto le Otto scene dal Faust nel 1828. A volte rappresentata in forma scenica, ma più spesso in forma di concerto, quindi senza scenografie, balletti o costumi, La Damnation vive da sempre questa doppia identità di opera e oratorio, in entrambi i casi corrispondendo all’inconsueta definizione che ne diede il compositore di “leggenda drammatica”.
Nei suoi colori e caratteri, la Damnation, divisa in quattro parti, contiene tutto il Berlioz delle sinfonie “narrative”, a cominciare dall’idillio rurale all’alba negli ampi spazi aperti dell’Ungheria per passare attraverso varie scene, ora caotiche, ora elegiache, ora meditative: e ovviamente i temi ultra romantici (l’angoscia esistenziale, la Natura — benigna o maligna –, il Male come presenza reale nel mondo) sono onnipresenti in tutto il lavoro.
Faust, cupo e malinconico, non si fa contagiare dalla oltraggiosa (per lui) spensieratezza degli abitanti del villaggio, in cui si inserisce la celebre “Marche hongroise”. Sulle note di archi, fiati e percussioni, sembra di vedere i cavalleggeri al galoppo, un’atmosfera che l’orchestra del San Carlo, diretta da Pinchas Steinberg, enfatizza senza esagerare.
Poi il tormentato protagonista torna in Germania, dove gli si affianca Mefistofele con le sue macchinazioni, e qui la musica ne asseconda ancor più gli umori: dubbioso, lirico, depresso mentre pensa al suicidio, spesso accompagnato, o incalzato, o sovrastato, da un coro del San Carlo in gran forma.
Il direttore Steinberg ha saputo calibrare tutta la sapiente orchestrazione di cui Berlioz è maestro. Dai delicati archi di apertura, alla magniloquenza del gran finale della seconda parte, fino all’epilogo celestiale, è stata un’esecuzione di grande intelligenza interpretativa. In quella che, in definitiva, rimane una successione di scene, Steinberg ha provato a conciliare i diversi pezzi in un percorso coerente, per far collimare tempi e ritmi, qui e là con qualche sfasatura (anche imputabile alle poche prove e al cambio in corsa di due delle voci principali), ma mostrando infine di avere una idea organica di un lavoro che per sua stessa natura tende a sfuggire dalle mani (e dalla bacchetta).
John Osborn, Daniela Barcellona e Ildar Abdrazakov sono voci ormai familiari per i frequentatori del San Carlo. Il tenore ha interpretato Faust con un elegante senso della linea: inizialmente mancava di quella potenza adeguata alla grande orchestra di Berlioz, ma ci ha offerto un tono raffinato e, soprattutto, un persuasivo mood malinconico: mai veramente sereno, neanche quando celebra la “Nature immense”, cresce in forza, personalità e determinazione quando deve salvare Marguerite o essere dannato insieme a lei.
Daniela Barcellona ha fornito un’interpretazione molto “romantica” di Marguerite, piena di rubati e di gesti canori appassionati; il mezzosoprano ha messo in mostra un bouquet vocale ricco di sfumature tenute insieme da una sapienza tecnica e scenica ragguardevole: nostalgica e sognante nella Ballata del Re di Thule, piena di fuoco (è il caso di dire) in “D’amour, l’ardente flamme”.
Ma il vero trionfatore della serata è stato senza dubbio Ildar Abdrazakov, che ha prestato la sua voce potente a un Mefistofele carismatico, malizioso e tentatore come si conviene. Incisivo nella sua caustica, amara ironia, fascinoso, terrificante, spavaldo, con una perfetta dizione francese, è stato padrone del ruolo e della scena.
Sopra tutto questo, saltava agli occhi la stretta collaborazione tra Steinberg e José Luis Basso, il Maestro del Coro che, seduto sul palco di spalle al pubblico, dietro ai secondi violini, con paterno sguardo dava discrete indicazioni ai suoi, forse necessarie per i ristretti tempi delle prove.
Il Coro è essenzialmente il quarto protagonista di questo dramma: proteiforme (demoni o angeli, soldati o studenti), ora solenne, ora appassionato, ora provocatorio, ora elegiaco, riusciva a diversificare e caratterizzare tutti i momenti, Nella taverna era rumoroso, nella fuga degli “Amen” blasfemo, celestiale infine nell’epilogo. Insieme ad episodi di grande violenza drammatica, come la scena del “Pandaemonium”, memorabili sono stati i momenti di lirismo, per giungere al finale in cui, da demoni che in una sorta di sabba gridano frasi incomprensibili, diventano una schiera di spiriti celesti che accolgono Marguerite in Paradiso.
Il passaggio dallo strepito infernale alla purezza paradisiaca è stato avvertito in sala con emozione, e ha suggellato una esecuzione in cui solisti, orchestra e coro hanno reso giustizia a tutta la vitalità, la varietà e il colore della partitura berlioziana.
Lorenzo Fiorito