VERDI I due Foscari L. Salsi, L. Ganci, M. Qerkezi, A. Di Matteo, M. Nardis; Orchestra dell’Emilia Romagna Arturo Toscanini, Coro del Teatro Municipale di Piacenza, direttore Matteo Beltrami regia Joseph Franconi Lee scene e costumi William Orlandi
Piacenza, Teatro Municipale, 3 maggio 2024
Sulla carta, questi Due Foscari piacentini presentavano molti motivi di interesse: la presenza del baritono verdiano (se proprio vogliamo limitarci…) più intelligente e persuasivo di oggi, Luca Salsi; il debutto come Jacopo di Luciano Ganci, tenore la cui carriera sta progredendo a velocità sorprendente (recenti i concerti giapponesi come Radames insieme a Riccardo Muti); e, nella carognissima parte di Lucrezia Contarini, la stella di Marina Rebeka. Il tutto tenuto assieme da un direttore di solido mestiere come Matteo Beltrami. Poi, prolungatasi la convalescenza della Rebeka, la bravissima sovrintendente del Municipale di Piacenza Cristina Ferrari ha avuto la fortuna e l’abilità di trovare libera Marigona Qerkezi, soprano 30enne nato a Zagabria da famiglia kosovara e che l’anno scorso aveva già cantato un paio di recite dei Foscari a Genova. E quindi la cancellazione della Rebeka si è mutata in provvida sventura: è voce infatti, quella della Qerkezi, di quelle che si ascoltano raramente per la ricchezza quasi insolente di armonici nei registri centrale e acuto (e gli acuti erano talmente sfacciati da risultare quasi stridenti), per la facilità con cui ha risolto una parte infida — come tutte quelle del primo Verdi: ma qui ancora di più –, sia nella soavità dei grandi cantabili sia nella capacità di cantare una coloratura di forza come oggi poche sanno fare. La dizione, e quindi il fraseggio, sono invece più alterni: e non per mancanza di capacità, come dimostra l’accento davvero urticante conferito alla sarcastica frase “La clemenza? S’aggiunge lo scherno”. Considerate poi le dimensioni ridotte del teatro piacentino, la Qerkezi ha davvero impressionato: con un lavoro di rifinitura più compiuto, ne ascolteremo delle belle. Ma probabilmente non era possibile in questa occasione, perché dal podio Matteo Beltrami — che ha proposto una lettura quasi integrale, mancando solo il da capo della stretta del terzetto al second’atto — ha insistito in maniera quasi esclusiva su accenti iper-drammatici, con l’idea di un Verdi “di galera” impetuoso e financo corrivo, senza che però il gioco di contrasti su cui questa musica si regge potesse dispiegarsi con efficacia. Certi tempi (quello della barcarola, o del finale ultimo) erano davvero esagerati: tra l’impeto e la parodia il confine, talora, è sottile. Ma non si può negare a Beltrami un senso del colore orchestrale e una capacità di realizzare un’idea drammaturgica compiuta — benché, lo ripeto, un tantino unidirezionale. Luciano Ganci, come dicevo all’inizio, è tenore oggi sulla cresta dell’onda: e la sua voce di puro tenore lirico oggi conosce delle risonanze quasi da lirico spinto, sia nella facilità di acuti perfettamente squillanti e “girati”, sia nell’impeto generoso, da vero tenore all’italiana, con cui affronta le grandi frasi verdiane. Al suo primo Jacopo, sembra giocare un po’ sulla difensiva nella cavatina d’entrata, ma già nella cabaletta fa vedere le sue doti non comuni, che partono da un rispetto minuzioso della scrittura, incluse le sferzanti quartine di semicrome e dei trilli ben più che accennati: e le voci che lo vogliono impegnato nella grande opera verdiana che aprirà la prossima stagione scaligera sono, dopo questa prestazione, del tutto credibili, se vogliamo considerare la scrittura di Don Alvaro da spartito e non per le incrostazioni della tradizione.
Parlare di Luca Salsi, poi, è oggi stucchevole: troppe volte ne ho lodato il bellissimo velluto vocale, che il baritono parmense non esita però a sacrificare in nome di quella verità drammatica che è il centro focale del teatro verdiano. E qui devo ripetermi: il colore diverso conferito a ogni parola (nel primo atto, quel sùbito contrasto tra “giustizia” e “perdono”!), il senso inimitabile della grande retorica verdiana, l’intensità dolorosa eppure nobile del padre piagato, la grandezza tragica del Doge… tutto brilla con ammirevole bravura nel modo di fare musica di Luca Salsi, che regge il confronto con qualsiasi grande Francesco Foscari del passato recente e remoto. Modesto il Loredano di Antonio Di Matteo così come i comprimari e molto volonteroso il coro piacentino, che ha contribuito al successo calorosissimo di questi Foscari. Ah, certo, c’era una regia: ma solo sulla carta, perché l’ennesima ripresa della polverosa cartolina da Venezia firmata anni fa da Joseph Franconi Lee non merita che si sprechino parole, non potendo essere in alcun modo legata a un’idea di teatro — non dico moderno, ma almeno credibile.
Nicola Cattò
Foto: Gianni Cravedi