Guggeis e Pagano: la gioventù trionfa a Santa Cecilia

BRAHMS Doppio Concerto per violino, violoncello e orchestra in la minore op. 102 LISZT Les Préludes STRAUSS Tod und Verklärung violino Sayaka Shoji violoncello Ettore Pagano Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Thomas Guggeis

Roma, Parco della Musica Sala, Santa Cecilia, 13 marzo 2025

Concerto particolarmente indovinato come programma e splendidamente eseguito dagli interpreti quello da poco ascoltato all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. E consolante, ove si pensi che il direttore e i solisti insieme non superavano i cent’anni (e se fosse venuto il previsto violinista Daniel Lozakovich non si sarebbe andati oltre i settanta). Il programma era una vera full immersion in quel secondo Ottocento mitteleuropeo e postromantico, nel quale Liszt fa da tramite agli estri byroniani di Berlioz; Brahms avvolge di spleen e nostalgia il verbo poetico di Mendelssohn e di Schumann; Richard Strauss mette a dimora i semi sparsi da Beethoven, da Wagner, da Bruckner. In altri tempi – quando ovunque i concerti erano di durate meno sindacali di quelle odierne – al già cospicuo tutto si sarebbe premesso un Egmont di Beethoven o un Manfred di Schumann. Che avrebbero ben mostrato da dove comincia il cammino di seminagione che porta a siffatte, pregiate fioriture creative.

Non molti oggi sono in possesso della vocazione naturale e culturale per dir tali pagine (e tale repertorio) in lingua originale: e rallegra assai che – oltre ad un Herbert Blomstedt, un Manfred Honeck, un Christian Thielemann – un trentenne come il bavarese Thomas Guggeis, al suo debutto a Santa Cecilia, abbia mostrato con dovizia di disporre e dell’una e dell’altra. Lo si è compreso già all’attacco di quell’opera incantevole e appena eccentrica che è il Doppio concerto di Brahms. Immediatamente la giusta nozione del colore sonoro dell’Amburghese è stata evidente, immediatamente l’inflessione peculiare del melos è stata quella esatta. E appunto fin dal singolare inizio, con quel repentino scatto di tutta l’orchestra – subito zittita per far posto ad una sorta di appassionata cadenza del violoncello prima, poi del violino – e quindi ad un fantasioso eppur intimo concertare a tre, ove l’energia non vuol dire allegria, ove l’empatia non esclude i contrasti. L’andante si lascia andare ad un lirismo certo intriso di malinconia, ma che tal sentimento sembra assaporare quasi con piacere, quasi con appagamento: perché l’unico possibile. E Guggeis lo ha condotto con una suggestiva ricchezza d’interne, sottil vibrazioni. L’allure rubizza, quasi alla Dvořák, del Vivace ma non troppo finale, è stata da lui colta in tutta la sua libera danzabilità, ma anche in tutta la coscienza – assolutamente brahmsiana – della relatività e della brevità di quel momentaneo tripudio. Il poco più che ventenne Ettore Pagano al violoncello ha esibito un suono ampio, caldo, morbido e un fraseggio ora vigoroso e ora dolce, ora irruente e ora galante. Ben confermando ch’egli, dello strumentismo d’arco italiano, è oggi una delle maggiori promesse. La giapponese Sayaka Shoji – nel 1999 vincitrice del Paganini e da tempo presente nei maggiori luoghi della musica – pur non negandosene la bravura, non aveva il suono ideale (il suo è appena aspro eppur piacevole: non sono così alcuni vini?) da assortirsi con quello di Pagano; e lei è stata però abile nel dipanare una scrittura a tratti ingrata e a correre penetrante soprattutto nei registri superiori. Ma rispetto alla cavata possente e all’irruenza sanguigna del violoncellista romano, è apparsa un po’ esile e appena troppo compita. Come singolare bis i due hanno offerto, tutto in pizzicato, Gocce d’acqua di Jean Sibelius.

Non s’eseguiva da vent’anni in Accademia (come del resto il Doppio di Brahms) il poema sinfonico Les Préludes di Franz Liszt. Opera vasta, eloquente fin quasi alla retorica, legata al testo di Lamartine solo dopo la composizione dall’abile Caroline Sayn-Wittgestein e corredato d’uno schema programmatico da Liszt dopo la prima esecuzione a Weimar nel 1854. Esso è in realtà una sorta di “vita d’eroe” alla Liszt, un’ode sinfonica alla statura e alla solitudine del genio. Guggeis non ne ha nascosto la bellezza vistosa e gli intimismi struggenti: anzi di un’orchestrazione mirabile, ma a tratti debordante, ha additato la realtà quasi storicizzandola, evidenziando (nei colori, nelle frasi aguzze, nella grandeur narcisistica) quanto sia questa una tappa tra Berlioz e Wagner. Come del resto quasi tutti i poemi sinfonici lisztiani, testi di scuola per chiunque si venuto dopo.

Ivi compreso quel Richard Strauss cui spettava di chiudere il programma del concerto con Tod und Verklärung. Che rimane certamente opera magistrale (da porsi accanto a Don Juan, Till Eulenspiegel, Also sprach Zarathustra e Ein Heldenleben), per l’abbacinante sua capacità d’appropriarsi di ideali, filosofie, autori, personaggi, poemi, cogitazioni le più concrete o le più indefinite e di farne rapinoso evento musicale. Così è per la meditatio mortis d’un giovane, qual Strauss era nel 1888. Ed egli stesso  dirà a Siegmund von Hausegger, in  una lettera del 1894: “Sei anni fa mi venne in mente l’idea di rappresentare musicalmente in un poema sinfonico [Tod und Verklärung]i momenti che precedono la morte di un uomo, la cui vita fosse stata un continuo tendere ai supremi ideali”. Guggeis ha forse superato sé stesso nella tenzone con un’orchestra ora solenne, lugubre ora tempestosa, fin delirante: e poi placata in un’immobilità ormai circonfusa di chiarore, forse di gloria. Se una matrice gli dev’esser trovata, la vedremmo in una celebre incisione di Wilhelm Furtwängler con i Wiener. E guardare a “li maggior nostri” è tutto fuorché peccato: anche perché il modello era rivissuto nell’onda di un empito ardimentoso ch’è solo dei giovani. Orchestra superba in tutta la serata, ma qui in Strauss abbiamo ascoltato momenti da togliere il fiato. Successo eccezionale, non c’è bisogno di dirlo.

Maurizio Modugno

Foto: © Musacchio & Pasqualini / MUSA

Data di pubblicazione: 15 Marzo 2025

Related Posts