MENDELSSOHN Die schöne Melusine op. 32; Concerto per violino in mi op. 64 SCHUBERT Sinfonia n. 8 in DO D 944 «La grande» violino Alina Ibragimova Chamber Orchestra of Europe, direttore Bernard Haitink
Chortrommel: nove prime esecuzioni di Christian Henking, Lucas Niggli, Mike Svoboda, Leonardo Idrobo, Vera Kappeler, Katharina Rosenberger, Olivier Cuendet, Denis Schuler e Fritz Hauser
DEBUSSY Jeux SIBELIUS Concerto per violino in re op. 47 STRAUSS Suite dal balletto Schlagobers op. 70 violino Renaud Capuçon Orchestre de la Suisse Romande, direttore Jonathan Nott
SCHUMANN Cinque pezzi in stile popolare op.102 per violoncello e pianoforte; Die Löwenbraut op. 31 n. 1 per baritono e pianoforte MENDELSSOHN Romanza senza parole in SI bemolle op. 67 n. 3 e Romanza senza parole in LA bemolle op. 38 n. 6 per pianoforte; Lieder per baritono e pianoforte: Suleika op. 57 n. 3, Des Mädchens Klage WoO 23, Suleika op. 34 n. 4, Auf der Wanderschaft op.71 n. 5, Schilflied op. 71 n. 4, Allnächtlich in Traume op. 86 n. 4, Venetianisches Gondellied op. 57 n. 5 BEETHOVEN Adelaide op. 46 (versione per baritono, violoncello e pianoforte a cura di Alexander Schmalcz) BRAHMS Due canti op. 91 per baritono, violoncello e pianoforte SCHUBERT Auf dem Strom D 943 per baritono, violoncello e pianoforte violoncello Sol Gabetta baritono Matthias Goerne fortepiano Kristian Bezuidenhout
STRAVINSKI Dumbarton Oaks: Concerto in MI; L’uccello di fuoco (versione 1910) MOZART Concerto per pianoforte in do K 491 pianoforte Lang Lang Lucerne Festival Orchestra, direttore Riccardo Chailly
SCHOENBERG Sinfonia da camera n. 1 in MI op. 9 BEETHOVEN Sonata in MI bemolle op. 27 n. 1 «quasi una fantasia»; Sonata in do diesis op. 27 n. 2 «quasi una fantasia» KURTÁG …quasi una fantasia…, op. 27 n. 1 per pianoforte ed ensemble da camera; Doppio concerto op. 27 n. 2 per pianoforte, violoncello ed ensemble da camera HOLLIGER COncErto? Certo! cOn soli pEr tutti (…perduti?…)! pianoforti Sir András Schiff e Zoltán Fejérvári violoncello Miklós Perényi Chamber Orchestra of Europe e Lucerne Festival Alumni, direttore Heinz Holliger
Lucerna, Lucerne Festival, KKL Konzertsaal e KKL Luzerner Saal, 18, 19 e 20 agosto 2018
In un’edizione che ha scelto l’infanzia come filo conduttore il Festival di Lucerna ha potuto concedersi delle escursioni in pagine meno note del repertorio. È il caso della suite del balletto Schlagobers di Richard Strauss, espressione del dialetto viennese corrispondente alla nostra panna montata. Schlagobers è un gioco musicale che forse avrebbe avuto la leggerezza dei valzer viennesi se fosse stato composto nel 1890, ma che suona surreale nella Vienna del 1924 (l’anno della prima rappresentazione alla Wiener Staatsoper del balletto, mentre la suite è del 1932). Resta un mistero come Strauss abbia pensato di proporre una pagina così disimpegnata al pubblico di una città ancora sconvolta dal crollo dell’Impero Asburgico, ma Strauss viveva fuori dal suo tempo, incapace per indole di fare davvero i conti con la storia. La storia, però, i segni li lascia comunque e la spensieratezza di questa partitura ha qualcosa di forzato e innaturale nel suo trito sentimentalismo salottiero e nel suo turgore timbrico, con un’enorme orchestra che sembra collassare sotto il suo stesso peso. Nel 1924 la «Felix Austria» erano soltanto un pallido ricordo, che magari si poteva nostalgicamente rimpiangere ma certo non si poteva far tornare in vita. E oggi nemmeno un’interpretazione elegante e convincente come quella dell’Orchestre de la Suisse Romande a Lucerna, con il suo direttore stabile Jonathan Nott sul podio, è riuscita a far volare una partitura dalle ali così piccole.
Curiosità a parte, il cartellone 2018 del Festival, che continuerà fino al 16 settembre, vede la solita parata di stelle (per fare un esempio: in tre diversi concerti abbiamo ascoltato nella stessa giornata Renaud Capuçon, Sol Gabetta, Matthias Goerne e Lang Lang!), oltre a celebrare alcuni anniversari come i cento anni dalla fondazione dell’Orchestre de la Suisse Romande, ospite del Festival già nella prima edizione del 1938, e i trent’anni di presenza del Maestro Riccardo Chailly, nella sua terza estate da direttore della Lucerne Festival Orchestra. Sul versante della nuova musica, alla quale a Lucerna da una quindicina d’anni di dedicano particolari attenzioni, suggestivo si è rivelato il progetto Chortrommel, coordinato dal compositore in residenza Fritz Hauser: nella Luzerner Saal, la sala piccola del KKL, abbiamo ascoltato ben 9 prime esecuzioni assolute di pagine per coro e percussioni di nove diversi compositori, legate tutte in unico percorso musicale in cui la dimensione primigenia del suono delle percussioni si scontrava e dialogava con quella umanizzata delle voci, in uno spazio sonoro arcaico e moderno insieme.
Sul versante della musica contemporanea ha suscitato molto interesse nel pubblico anche il concerto della Chamber Orchestra of Europe, affiancata per la circostanza da alcuni ex allievi della Lucerne Academy (l’orchestra-scuola fondata proprio per approfondire lo studio del repertorio dei nostri giorni). La serata ha preso le mosse da un’asciutta e impeccabile esecuzione della Sinfonia da camera n. 1 di Schoenberg per approdare al scenografico COncErto? Certo! cOn soli pEr tutti (…perduti?…)! composto dallo stesso Holliger nel 2001 in occasione del ventesimo compleanno della Chamber Orchestra of Europe. Lo stravagante COncErto è una partitura spumeggiante e scenografica, piena di citazioni da Mozart, da Johann Strauss, da Debussy e perfino dai Beatles, citazioni in realtà non riconoscibili a un primo ascolto perché le melodie originali sono tutte rallentate e frammentate; inoltre le numerose sezioni in cui il brano si divide sono intercambiabili e il loro ordine viene deciso al momento dell’esecuzione dal direttore stesso. Se l’alternanza tra i «tutti» e i «soli» rimanda naturalmente al concerto barocco, alla chiarezza e linearità della musica barocca Holliger contrappone una sovrabbondanza di materiali che arriva a stordire l’ascoltatore in un’allegra e disimpegnata girandola sonora (c’è anche una fuga a venti voci sul nome ABBADO) in cui a fare la parte del leone è il virtuosismo, con una lunga serie di effetti richiesti ai singoli musicisti nei «soli» e suggestivi impasti timbrici nei «tutti».
Al centro della serata si è invece svolto un dialogo a distanza tra Ludwig van Beethoven e György Kurtág, ispiratosi alla fine degli anni Ottanta alle due Sonate per pianoforte op. 27 in due pagine di grande libertà nell’invenzione timbrica, che prevedevano degli strumenti disposti in sala e sulle balconate del KKL accanto agli strumenti sul palcoscenico. L’esecuzione delle due Sonate beethoveniane era affidata al veterano Sir András Schiff, mentre il giovane Zoltán Fejérvári si è cimentato con l’imprevedibile scrittura di Kurtág, ora rarefatta e sognante ora estremamente virtuosistica nel suo parossismo ritmico. Con il passare degli anni Schiff è diventato un pianista sempre più astratto, tutto concentrato a cercare un suono trasparente e leggero e un fraseggio di imperturbabile eleganza. Questo lavoro sule dinamiche e sul respiro delle frasi in pagine come le Sonate op. 27 ha condotto a esiti di sublimata bellezza (basti pensare al suono morbido e chiuso del terzo tempo della Sonata op. 27 n. 1, ottenuto senza l’uso del pedale «una corda» e ai delicatissimi arabeschi sonori dell’Allegretto della Sonata op. 27 n. 2, affrontato con molta reticenza), però il contraltare di un pianismo da cui viene bandita ogni brillantezza è un generale e a volte eccessivo raffreddamento delle passioni, evidente nell’incedere quasi asettico del celebre primo movimento della Sonata op. 27 n. 2 «Chiaro di luna». Nello Schiff degli ultimi anni, poi, la tecnica si è un poco appannata e i passaggi in velocità che richiedono una perfetta articolazione, per esempio il secondo movimento e la fuga conclusiva della Sonata op. 27 n. 1 e il finale della Sonata op. 27 n. 2, mancavano di chiarezza e di incisività; inoltre se nei pianissimi e nei piano Schiff ottiene un suggestivo colore, rarefatto e malinconico, sopra il mezzoforte il suo timbro tende invece a farsi decisamente metallico.
Impeccabile è stata invece l’esecuzione delle due straordinarie pagine di Kurtág, un po’ perché Holliger si muove in assoluta sicurezza nei meandri delle partiture contemporanee un po’ perché i membri della Chamber Orchestra of Europe e i giovani ex allievi dell’Accademia possiedono un livello professionale decisamente alto. La prima pagina del dittico si apre nel segno di un’atmosfera surreale rarefatta e continua con un isterico e conturbante Presto minaccioso per poi adagiarsi, dopo un Recitativo, su un’Aria plumbea in cui il pubblico ha l’impressione di ascoltare della musica sott’acqua. Un pungente puntillismo sonoro caratterizza invece l’esordio della seconda pagina, che a poco a poco si carica di un violento virtuosismo in una vera e propria ridda di temi e di motivi per poi spegnersi lentamente, arrivando ai sordi colpi di timpano delle battute conclusive che sembrano sul punto di essere inghiottiti dal silenzio.
Di fronte al nuovo si ergeva la tradizione, rappresentata dall’ottantanovenne olandese Bernard Haitink, che a Lucerna è una presenza immancabile, sempre con la Chamber Orchestra of Europe. Al KKL nella sinfonia «La grande» di Schubert lo avevamo già ascoltato tre anni fa e questa estate abbiamo ritrovato lo stesso colore brunito del suono, la compattezza del timbro, lo stesso fraseggio di allora, morbido e quieto nel suo incedere composto e a tratti perfino un poco rigido. Haitink dirige Schubert senza affanni, delibandolo come un vino d’annata, sacrificando qualcosa sul piano della brillantezza e della flessibilità del ritmo (sul podio si muove appena, lasciando molto suonare l’orchestra) ma guadagnando su quello del fascino timbrico e della tenuta dell’insieme, per quanto la Chamber Orchestra of Europe non si sia rivelata sempre impeccabile. Un capolavoro di suggestioni è stata l’interpretazione dell’ouverture Die schöne Melusine di Mendelssohn, immersa in evanescenze in cui alla leggerezza del suono si univa il calore del timbro, come potevano ottenere solo un direttore che ha frequentato per decenni e decenni la musica di Mozart – musica difficile da rendere nella semplicità e trasparenza della tessitura – e un’orchestra dalla vocazione cameristica, in grado praticamente di suonare da sola tanto sono oliati i suoi meccanismi.
Del Concerto per violino di Mendelssohn Alina Ibragimova ha dato una lettura delicata ed elegante, ricercando un’estrema chiarezza in tutti i dettagli (i passaggi di agilità erano sempre risolti con disinvoltura) e sonorità tenui e sottili, spesso confinanti con il silenzio, in particolare nella cadenza del primo movimento. La trentatreenne violinista russa ha un suono piccolo e quasi privo di vibrato come accade a chi frequenta abitualmente il repertorio settecentesco su strumenti barocchi, con l’unico difetto che oltre il mezzoforte tende a diventare un poco metallico. È però molto attenta a dialogare con l’orchestra, attitudine che ha trovato una corrispondenza ideale sia nell’acustica del KKL, una sala in cui il pubblico riesce a percepire ogni dettaglio dell’esecuzione, sia nella vocazione cameristica della Chamber Orchestra of Europe.
Ci aspettavamo molto da Renaud Capuçon nel Concerto per violino di Sibelius e le attese non sono certo andate deluse, perché l’eleganza, la finezza e i controllati abbandoni sentimentali del violinista francese si accordano a meraviglia con una partitura umbratile e sfuggente e nel contempo scossa da momenti di alto virtuosismo. In Capuçon sono sempre ammirevoli la precisione e l’eleganza del colpo d’arco, la fluidità del fraseggio, la purezza dell’intonazione, mai incrinata da un vibrato sempre presente eppure usato con classe. I brividi per il pubblico sono arrivati subito, con il celebre attacco del solista sul tremolo degli archi, quindi con una cadenza tutta di incorniciare per l’intensità emotiva e la pulizia del suono e infine con una coda affrontata con un imperturbabile vigore ritmico. Nel secondo movimento solista e orchestra si fondevano in perfetta armonia in un unico grumo sonoro, pastoso e scuro, mentre dal canto suo Capuçon ha tratteggiato il Re 6 conclusivo con una dolcezza struggente e lontana. Il finale, quasi incupito, privo di brillantezza, era un altro capolavoro di introspezione.
È stata rimarchevole anche l’interpretazione della musica del balletto Jeux, perché alla guida dell’Orchestre della Suisse Romande Jonathan Nott ha saputo rendere con estremo equilibrio e senso della misura le raffinatissime invenzioni ritmiche e timbriche di questa partitura di Debussy che meriterebbe di essere più conosciuta e che invece è scivolata quasi inosservata lungo un secolo di storia della musica, anche a causa della sua concomitanza con quell’autentica deflagrazione sonora rappresenta dal Sacre du printemps stravinskiano, messo in scena dai Balletti russi di Diaghilev il 29 maggio 1913, appena 14 giorni dopo la prima rappresentazione di Jeux. Anche se Nott è senza dubbio in direttore più vigoroso di Haitink e l’Orchestre de la Suisse Romande tende a essere emotivamente più accesa della Chamber Orchestra of Europe, l’esecuzione possedeva una leggerezza e una eleganza fascinose, a cui si accompagnavano com’è giusto contagiosi slanci danzanti.
Sul versante cameristico – è incredibile come l’acustica del KKL funzioni alla perfezione sia con una grande orchestra sul palcoscenico sia per la liederistica – è stato emozionante il prezioso concerto con Sol Gabetta, Matthias Goerne e Kristian Bezuidenhout, che ha suonato su un Blüthner originale del 1856 dall’ottimo timbro per quanto con un volume di suono insufficiente a bilanciare la grande voce di Goerne. Dopo un’elettrizzante interpretazione dei Cinque pezzi op. 102 di Schumann da parte di Sol Gabetta, la quale come al suo solito ha puntato più sulla vivacità del ritmo che sull’intensità del cantabile, Matthias Goerne ha dato una lezione di stile in un viaggio nel cuore del Romanticismo liederistico attraverso Mendelssohn, Schubert, Schumann e Brahms. Il baritono tedesco possiede una voce morbida e piena di risonanze, sempre dolce anche nel forte, timbricamente affascinante e di grande volume ma ben controllata anche nei pianissimi. La bellezza della voce è però solo il punto di partenza per un discorso musicale in cui la musica e la parole rivistono la stessa importanza. Tutto era espresso con compostezza, anche il dolore (in «Das Mädchens Klage» di Mendelssohn, per esempio), mentre una dolcezza domestica sembrava pervadere i Lieder dai toni più sentimentali e malinconici, come «Adelaide» di Beethoven.
Riccardo Chailly ha infine festeggiato i suoi trent’anni di presenza al Festival di Lucerna con un’intensa interpretazione della partitura integrale dell’Uccello di fuoco di Stravinski, nella versione del 1910. È stato uno Stravinski tagliato di netto, spigoloso e ruvido nella sua dirompente modernità timbrica e armonica (basterebbero a dimostrarlo le prime straordinarie battute con il tema cromatico affidato ai violoncelli e contrabbassi, un tema che emerge faticosamente come risalendo da un pozzo senza fondo) e insieme definito in ogni dettaglio con millimetrica precisione, proprio come era avvenuto l’estate scorsa con una memorabile interpretazione del Sacre du printemps. Riccardo Chailly mostra di avere una grande affinità con la musica di Stravinski, riuscendo a liberarne tutta la dirompente forza emotiva e ritmica senza d’altro canto incrinarne la complessa struttura architettonica. Lo ha evidenziato anche all’inizio della serata in una partitura all’apparenza semplice come il concerto da camera Dumbarton Oaks in realtà molto delicata da affrontare nella sua costruzione «a incastro» di piccole cellule ritmico-melodiche. Tra lo Stravinski barbarico dei balletti scritti per la compagnia di Diaghilev e quello neoclassico degli anni Venti e Trenta (Dumbarton Oaks è del 1938) la frattura è del resto meno ampia di quanto non sembri e l’approccio analitico di Chailly è il modo migliore per dimostrarlo. Al perfetto controllo dei meccanismi d’insieme, alla precisione in tutti i passaggi e al vigore del ritmo la Lucere Festival Orchestra unisce poi un suono di grande fascino, dai fiati pungenti agli archi amalgamati alla perfezioni, un suono a cui l’acustica del KKL dà il massimo risalto e che una vecchia volpe del palcoscenico come Chailly riesce sfruttare in tutte le sue potenzialità, dagli incantamenti ipnotici della «Berceuse» alle esplosioni telluriche del finale del balletto.
Altra è la prospettiva di un esteta del suono come il pianista cinese Lang Lang che nel Concerto in do K 491 di Mozart si è abbandonato a preziosismi timbrici di ogni sorta, giocando, come al suo solito, su un grande ricchezza di sfumature nelle regioni del piano e del pianissimo. Se infatti all’esposizione orchestrale del primo movimento Chailly ha impresso un piglio robusto e deciso, Lang Lang ha preferito ripiegare su sonorità opache e smunte, per poi tratteggiare un secondo movimento tutto in ombra, con le dita quasi costantemente attaccate ai tasti e quindi una percussione sempre molto morbida. Prezioso e ricercato, il Mozart di Lang Lang rischia di essere fin troppo artefatto (sopra il mezzoforte, tra l’altro, le sue sonorità tendono sempre a diventare un poco metalliche), ma in questa occasione il pianista cinese ha almeno evitato l’autocompiacimento per una brillantezza digitale che in passato lo portava a interpretazioni decisamente troppo sopra le righe. Sulla stessa lunghezza d’onda il bis, un Notturno in do diesis op. posth. di Chopin il cui fraseggio a lunghe campate è stato tratteggiato con impareggiabile leggerezza e affascinanti chiaroscuri timbrici.
Luca Segalla
(Foto: Priska Ketterer / Lucerne Festival)