BRAHMS Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in re minore op. 15 DVOŘÁK Sinfonia n. 8 in sol maggiore op. 88 pianoforte Beatrice Rana Filarmonica della Scala, direttore Manfred Honeck
Milano, Teatro alla Scala, 3 luglio 2021
L’ultimo appuntamento dell’orchestra scaligera prima di due serate di balletto e dei concerti “diffusi” della Scala in città ha coinciso con la presenza sul podio del Piermarini di uno dei maggiori direttori viventi, nonostante non sia oggetto di continua promozione mediatica (o forse, proprio per questo motivo…): il 63enne austriaco Manfred Honeck. Ex violista dei Wiener Philharmoniker (orchestra della quale il fratello Rainer è tuttora Konzertmeister), Honeck — che la giuria ICMA ha nominato nel 2018 artista dell’anno — ha iniziato la carriera di direttore come assistente di Abbado negli anni ’80, svolgendo poi una carriera di ottimo livello, esibendosi con tutte le orchestre più prestigiose del mondo ma senza mai conoscere una vera fama (e forse per questo ha avuto il tempo di maturare con serietà e senza quei “salti” che hanno rovinato tanti giovani talenti della bacchetta): è dal 2008 direttore stabile della Pittsburgh Symphony, ma certamente gli anni come primo direttore ospite della Filarmonica Ceca gli hanno permesso di approfondire il rapporto con la musica di quell’area, e con Dvořák in particolare. E l’esecuzione dell’Ottava di sabato 3 luglio l’ha dimostrato: una performance semplicemente memorabile. Honeck unisce in sé l’assoluta chiarezza del gesto alla fantasia, anche visiva, con la sua celebre mano sinistra “kleiberiana” che sa sempre suggerire ai musicisti cosa fare, con un misto di rigore e libertà che è l’essenza di questo tipo di musica.
In Dvořák, nel Dvořák di Honeck si legge chiara l’impronta classica, brahmsiana della forma, ma anche l’influsso del folklore boemo e persino viennese (penso ai portamenti dei primi violini nel terzo movimento), il gusto per la grande perorazione retorica che mai diventa chiassosa, grazie ad una assoluta trasparenza della concertazione e a un equilibrio sempre misurato tra ottoni, legni e archi, persino nella tuttora vigente disposizione orchestrale, che obbliga a distanze quasi impossibili. Molti i momenti memorabili, in questa Ottava, ed è impossibile riassumerli tutti: ma quello che mi preme ancora una volta sottolineare è la grandezza di un musicista che è basata su anni di studio, di lavoro, senza eccessi divistici e con un’attitudine umana sempre generosa e umile. Un’umiltà, o per meglio dire intelligenza musicale, confermata anche nella prima parte di serata, con il Primo concerto di Brahms: Beatrice Rana è una delle pochissime donne ad affrontare questo monumento della letteratura pianistica, che richiede enorme forza muscolare, reattività, tecnica saldissima e una continua interazione con l’orchestra per la non comune durata di 50 minuti. L’aver rinunciato, da parte della bravissima pianista pugliese, alla roboante declamazione retorica del primo movimento può essere visto come una necessità, e non una scelta, ma a noi importa poco: in perfetto accordo con Honeck, il concerto vibrava continuamente di poesia misurata, di trasparenze (specie, come era facile aspettarsi, nell’Adagio centrale) e di un’intelligenza infallibile nel sottolineare gli snodi narrativi e formali dell’ampia partitura. E poi, nel Rondò finale, la Rana sfoggiava gli artigli di un armamentario tecnico non comune, avvitandosi nelle varie riproposizioni del tema iniziale con sempre maggior bravura e in perfetto dialogo con un’orchestra intensa e mai prevaricante. Chissà, forse per le caratteristiche di questa bravissima artista il Secondo di Brahms potrebbe essere, nei prossimi anni, un obiettivo più adatto alle sue caratteristiche psicologiche e musicali: ma la resa di questo Primo è stata di non comune livello, tale da trascinare all’entusiasmo il pubblico, ringraziato con una raffinata esecuzione della Romanza n. 2 op. 28 di Schumann.
Nicola Cattò