MAHLER Sinfonia n. 8 in Mi bemolle maggiore “Sinfonia dei mille” soprani Ricarda Merbeth, Polina Pastirchak, Regula Mühlemann contralti Wiebke Lehmkuhl, Okka von der Damerau tenore Klaus Florian Vogt baritono Michael Volle basso Ain Anger Orchestra e Coro del Teatro alla Scala (Maestro del Coro: Alberto Malazzi), Coro del Teatro La Fenice di Venezia (Maestro del Coro: Alfonso Caiani) Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala (Maestro del Coro: Bruno Casoni), direttore Riccardo Chailly
Nessun direttore oggi in attività (ma il discorso rimane lo stesso se volgiamo lo sguardo all’indietro) ha la stessa consuetudine con quel monstrum sinfonico-corale che è l’Ottava sinfonia di Mahler quanto Riccardo Chailly, da lui proposto ben otto volte tra Milano, Amsterdam, Lipsia e Lucerna: un amore evidente per una partitura in un certo senso singolare nel percorso creativo mahleriano, per quel tono quasi costantemente ottimistico e l’afflato mistico che la pervade, e che è evidente anzitutto in un dominio assoluto delle enormi masse che l’esecuzione richiede. In questa riproposta, per tre serate completamente esaurite, della partitura mahleriana alla Scala (dove mancava dal 1970!), colpiva anzitutto il gesto del maestro milanese, fattosi alla bisogna più ampio, ma sempre di cristallina precisione e capace di suggerire anticipi, entrate, colori, accenti: ne beneficiavano gli artisti coinvolti (circa 370 comprendendo i cori della Scala e della Fenice, le ottime voci bianche, l’orchestra e gli otto solisti di canto) e certamente il primo problema da risolvere quando si decide di rispolverare questo mammut musicale è che – banalmente – tutto fili liscio. Anche perché, nonostante la nuova camera acustica presentata in teatro, la disposizione delle masse corali era svolta in profondità, e non in larghezza come sarebbe auspicabile: ne soffrivano, pertanto, gli effetti antifonali, più teorici che veramente avvertibili (ivi comprese le due fanfare di trombe e tromboni nei due finali, che perdevano completamente di efficacia), e l’effetto-saturazione, nonostante tutti gli accorgimenti profusi, era sempre dietro l’angolo. La lettura di Chailly è certo cambiata e maturata con gli anni: particolarmente efficace mi è sembrato il taglio del primo movimento, il “Veni creator spiritus”, prosciugato di ogni trionfalismo per essere rivisto sotto una luce nitida, quasi espressionista nel rifilo dei contorni ritmici, scattante e sempre incisivo. A tal proposito molto emozionante era l’enfatizzazione della Luftpause prescritta da Mahler prima dell’attacco all’unisono di “Accende lumen sensibus”: un dettaglio che diceva molto sul rapporto tra micro e macrostruttura, così lucidamente perseguito da Chailly. L’ampia seconda parte, basata sul Faust di Goethe, perdeva forse, anche – ribadisco – a causa dell’acustica non ottimale, tale lucidità di concertazione: ma eccellenti, comunque, rimanevano il rapporto tra coro e solisti, i preziosismi dei dettagli strumentali (primo violino, primo violoncello, mandolino…) e la visione complessiva della partitura. Nonostante importanti defezioni rispetto a quanto originariamente annunciaato, il livello degli otto solisti era certamente buono, con la punta di Klaus Florian Vogt che, nonostante le critiche che si possano muovere al suo timbro e al suo modo di cantare, ha squillo e potenza, e all’ispirato Michael Volle, che replica con la classe all’avanzare dell’età: e Regula Mühlemann come Mater Gloriosa (un minuto scarso di canto) era un vero lusso. Grande successo, ovviamente: un’Ottava fa sempre effetto, al di là di come la si esegua. Che poi questa indigestione mahleriana, che avrà il suo culmine in autunno con l’integrale proposta per celebrare i trent’anni della Verdi, ora Orchestra Sinfonica di Milano, sia davvero necessaria… beh, io ho i miei forti dubbi, considerando anche quante vere gemme di repertorio sono, specie in Italia, del tutto ignote.
Nicola Cattò
Crediti: Brescia/Amisano, Teatro alla Scala