MOZART Don Giovanni L. Micheletti, J. Wagner, M. Sicilia, G. Sala, A. Luongo, F. Di Sauro, L. Košavić, R. Zanellato; Orchestra e Coro Teatro Regio Torino, direttore Riccardo Muti regia Chiara Muti scene Alessandro Camera costumi Tommaso Lagattolla
Torino, Teatro Regio, 18 novembre 2022
Riccardo Muti mi perdonerà se nel parlare di questa nuovo Don Giovanni prendo le mosse da ciò che si è visto prima ancora di ciò che si è sentito. Già, perché ho ancora ben scolpite in testa le parole con le quali, in occasioni pubbliche connesse a questa sua attesissima presenza torinese, ha manifestato la sua ripulsa per il modo col quale, da anni, nella valutazione di uno spettacolo d’opera la regia il più delle volte metta la musica in una posizione sussidiaria. Per di più, anche quando ci si trova di fronte, cosa ormai non rara, alla palese contraddittorietà fra letture musicali improntate alla più estremistica delle visioni filologiche e rivisitazioni drammaturgiche dove l’infedeltà al libretto è un must. Pur essendo questione meritevole di essere presa in esame da molteplici angolature, si tratta di un punto di vista dal quale è difficile dissentire, specie se espresso da chi ama portare a modello i nomi di Strehler, Ronconi, Vitez o Herzog. Peraltro, Muti aggiunge con franchezza che è la ragione per la quale da tempo ha deciso di non dedicarsi a nuove produzioni liriche, salvo rare eccezioni, in cui la collaborazione con la figlia Chiara gli consente di trovare il giusto punto di equilibrio. Un rapporto artistico che ha scelto Mozart come terreno nel quale confrontare i rispettivi ruoli e che già nel precedente Così fan tutte (portato anche al Regio nel 2021, ma purtroppo offerto solo in streaming) si era tradotto in una accurata e interessante riflessione sul testo, solo condizionata da un distraente horror vacui. Lavorando su Don Giovanni, l’impressione è che la regista abbia fatto un notevole passo avanti, non senza riflessi anche sull’impostazione musicale. Le regie autentiche, non improvvisate, sono uno scrigno di memorie teatrali, suggestioni letterarie e culturali, esperienze personali che si amalgamano e agiscono nel profondo, dando vita infine a una visione propria, a un’idea comunque originale e forte che procede coerente dalla prima all’ultima scena. Chiara Muti non fa mistero dei suoi stimoli, a cominciare da quello alquanto insolito della Dernière nuit de Don Juan di Rostand, dove le ombre delle donne frantumano le certezze dell’ormai crepuscolare libertino, rivendicando a sè la volontà di essere sedotte, mentre un Diavolo burattinaio lo condanna non all’agognato fuoco infernale, ma ad essere un’eterna marionetta replicante per sempre il suo mito. Da qui all’immagine degli uomini-pupazzi ciondolanti nel magazzino di un infimo teatrino di periferia di quella struggente metafora poetica che è il cortometraggio/capolavoro Cosa sono le nuvole? di Pasolini (a cui esplicitamente la regista ha voluto fare omaggio), il passo è breve. Ma Chiara Muti non ricalca, rielabora in totale libertà tali spunti. Ed ecco che grucce calano dall’alto recando a ciascuno dei sei personaggi (curiosa pirandelliana coincidenza…) gli abiti per tornare a nascere ed essere qualcosa intorno a Don Giovanni, che non ha bisogno di vestizioni e cioè di rigenerarsi, perchè, più semplicemente, non ha mai smesso di esistere. Il burlador della Muti è certo quello che in Rostand si definisce «il solo eroe che l’umanità veramente ammiri», colui che non ha paura di essere ciò che è, a qualunque costo, contrapponendosi a coloro che di tale coraggio sono privi. Ed è dunque spavaldo, arrogante, ostinato, manipolatore, audace, scaltro, violento, insaziabile gaudente, unica scintilla di vita in un mondo decrepito e spento. In una cornice teatrale sghemba, l’impianto scenico di Alessandro Camera si avvale in verticale di sipari e quinte riproducenti fantasmatici edifici barocchi, uno dei quali giace schiantato al suolo in funzione di pedana anche mobile, con molteplici aperture simili a sepolcri, buone per il gioco delle molte entrate e uscite previste dall’azione. I costumi di Tommaso Lagattolla non puntano alla coerenza cronologica, ma a connotare i caratteri o le situazioni. Nell’alternarsi degli stili – i lazzi della commedia dell’arte, gli atteggiamenti aulici del dramma, il naturalismo della commedia di stampo goldoniano -, è la straordinaria cura della recitazione, sempre sorvegliata nel gusto, la cifra unificante di uno spettacolo che scorre con un ritmo e un dinamismo rari, inanellando soluzioni magari inusuali, ma che non hanno mai il sapore della trovata. Nere ombre fanno la loro comparsa per condurre nell’aldilà un Commendatore con parruccone e mantello di strehleriana memoria (tra le diverse che ci si può divertire a cogliere), dopo che Don Giovanni ha fatto roteare nell’aria la sua spada per finire lui a terra, ed è un presagio della sua futura sconfitta. Torneranno sotto forma di Parche e poi di Erinni persecutrici e giustiziere, per trascinare infine agli inferi il seduttore dopo avergli fatto prendere coscienza delle sue colpe attraverso un gigantesco specchio infranto. Ma sono anche le dodici donne che vediamo apparire mentre Leporello sciorina il suo catalogo, una per ogni tipologia.
Nell’impossibilità di dar conto di tutto, si può dire che l’inessenziale è parso ridursi a pochi particolari, come il mascherarsi da Re Sole quando il protagonista inneggia alla libertà, delirio di onnipotenza di un lucidissimo ego che ama scherzare, ma di effetto discutibile se rappresentato. E anche la scena della festa nel suo insieme, con una distribuzione delle orchestre sul palco forse non ottimale anche ai fini musicali, come spesso accade ha faticato un poco a conciliare l’ebbrezza del caos con la chiarezza degli accadimenti. In compenso, se di dettagli si volesse ancora parlare, si può almeno citare la genialità di quell’inciampo fisico in cui Don Giovanni incorre nel congedarsi dopo il Quartetto, in coincidenza del quale la voce si incrina e lo tradisce: qui uno snodo drammaturgico cruciale è messo in singolare risalto. Quanto alle singole scene, un vertice va riconosciuto in quella del cimitero, certo lontana da ciò che il pubblico poteva attendersi, ma coerente con l’impostazione generale. Non lapidi, nè statue, bensì un triste e angusto deposito sotterraneo in cui si accalcano alla rinfusa, mescolati a misero trovarobato, nudi pupazzi e abiti ridotti a stracci, povere marionette dimenticate, non troppo dissimili dai corpi appesi nelle Catacombe palermitane. Lì Leporello e Don Giovanni irrompono con sguaiata irriverenza e poi dialogano con ciò che resta del Commendatore, ma la varietà e la vivida, esaltata crudezza dei toni, ora grotteschi ora drammatici, voluta da Chiara Muti, assegna identità nuova soprattutto al recitativo, che qui, più ancora che in altri momenti dello spettacolo, è sembrato volersi liberare da vincoli formali, verso l’espressione pura del puro teatro. Con un risultato allucinatorio e surreale, che almeno nella mia esperienza non trova molti eguali.
Il Teatro, dunque, è quello che la regista ha offerto a piene mani a Riccardo Muti. Essendo ben noto che la necessità di dare la massima evidenza alla parola in musica è da anni un suo mantra, soprattutto per quanto riguarda Mozart o Verdi, non deve stupire come questo Don Giovanni, anche rispetto al passato, assuma un carattere veramente compiuto per quanto riguarda il modo col quale la parola, nei recitativi come nei numeri musicali, sia stata non solo rispettata ma abbia potuto manifestare la sua decisiva valenza. Non si tratta solo di chiarezza, ma di sintonia espressiva con un dato musicale ineguagliabile. Ritmo della prosodia, pause, accenti, correlazione con il gesto, ogni componente risultava percepibile come naturale e logica, nel fluire di un discorso musicale e teatrale senza la minima caduta di tensione. Ottenendo dal Maestro anche qualche minima licenza, quali il pianto a dirotto di un’Elvira psicologicamente devastata dopo l’aria di Leporello o l’ultimo “No!” di Don Giovanni al Commendatore, ma come grido e non come variante acuta del canto. Dunque, sempre teatro, e con un senso. Se la regia lo ha assecondato e anche ulteriormente stimolato, tutti i cantanti hanno lavorato nella stessa direzione. Attori eccellenti, tanto per cominciare, coinvolti senza risparmio, nonostante la concentrazione richiesta dall’impegno vocale. Al quale hanno corrisposto in modo pressoché ideale in termini di peculiarietà timbrica e di disciplina esecutiva e prima ancora espressiva, consapevoli del privilegio di quest’esperienza. Luca Micheletti, singolare figura di artista approdato all’opera dopo anni di intensa e ricercata attività di prosa, ha padroneggiato la parte del protagonista con una sicurezza assoluta e un carisma da interprete autentico, senza gigionerie. Vocalmente, non si dimenticheranno facilmente la duttilità con la quale piega una voce ben timbrata e omogenea alle sfumature più sottili del recitativo (mirabile quello che precede il duettino con Zerlina), quindi alle esigenze di un canto elegante e tutto sul fiato (la Serenata, a mezza voce da capo a fondo) così come ai momenti più vigorosi (la temibile cosiddetta “aria dello champagne”, bevuta in tutta souplesse, nel rispetto del tempo comunque non comodo voluto dal direttore). Alessandro Luongo, decisamente in crescita rispetto al Guglielmo dello scorso anno, ha trovato in Leporello l’opportunità di mettere in luce un fraseggio di alta classe e una personalità marcata ma sempre vigile, mai tentata da facili trivialità. Di gran rilievo l’Elvira di Mariangela Sicilia, ritratta come una donna in continua lotta con le sue ben visibili fragilità emotive, vocalmente generosa e puntuale anche nei passaggi meno agevoli della sua parte. Passando da Despina a Zerlina, Francesca Di Sauro attenua la malizia per lasciar spazio a una seduttività naïf, vissuta con semplicità e senza alcun senso di colpa, oltre che incarnata con molta proprietà nella persona così come nel calore e nella freschezza gentile della sua voce di mezzosoprano chiaro, che volentieri ormai si ascolta a preferenza dei sopranini d’un tempo. Anche Jacquelyn Wagner viene a capo della difficoltà di Donna Anna, dimostrando di sapersi adattare abbastanza bene, ricorrendo in misura opportuna al vibrato, alle esigenze del Mozart “all’italiana”. Pur essendo sempre sulla nota, sotto pressione lascia emergere talora alcune emissioni meno pulite, nella prima come nella seconda aria, nella quale peraltro è parsa più a suo agio. Solo elogi vanno infine a Giovanni Sala, un Ottavio di grande stile, artefice di un “Dalla sua pace” da sogno, mirabilmente sorretto da un lievissimo sospiro degli archi, all’esuberante Masetto di Leon Košavić e alla composta autorevolezza da basso autentico del Commendatore di Riccardo Zanellato.
A questo punto, venire al direttore da ultimo consente di chiudere il cerchio di questa serata di magia vissuta al Regio ripartendo dal demiurgo che l’ha resa possibile. Personalmente, ricordo il Mozart di Muti alla Scala negli anni ’80 come un’esperienza dal segno indelebile. Abituati alle prassi straniere, per quanto nobilissime e autorevoli, una lettura che ricollegava il teatro mozartiano alla grande lezione del melodramma italiano cancellava d’un colpo tante certezze e tanti cliché. A distanza di tanti anni, davanti a questo Don Giovanni, così come era stato per Così fan tutte, ci si rende conto di quanto Muti sia riuscito ad andare lontano su tale strada. Tutto ci appare ancora più netto, più giusto, più irrinunciabile: la superba qualità del suono, la leggerezza dello strumentale, la tenerezza avvolgente della cantabilità, l’energia degli scatti drammatici, l’inesauribile ricchezza delle gradazioni di dinamiche e colori, l’amorosa attenzione per il recitativo, di cui già s’è detto, il sostegno delle voci. Non sarebbe difficile elencare i tanti momenti di ineffabile bellezza che si sono ascoltati, ma ancora più impressionante è stata la volontà di Muti di evitare qualsiasi frammentarietà, dando coesione all’opera salvaguardandone le ambiguità, con una spettacolare, irresistibile progressione di tensione drammatica. Ancora una volta, l’Orchestra del teatro e il suo Coro (sempre in buca) diretto da Andrea Secchi, hanno dimostrato il loro valore. Nè può essere trascurato il contributo di Alessandro Benigni al fortepiano, fantasioso ma nella sobria misura ritenuta necessaria dal direttore (nella cui visione del resto non trovano posto abbellimenti o ornamentazioni neanche nelle riprese delle arie, dove la richiesta di mutamento è lasciata all’espressione). Ovazioni hanno salutato una serata di grande importanza per il teatro torinese, consolidando un rapporto che potrebbe far ben sperare in un completamento della trilogia dapontiana.
Giorgio Rampone
Foto: Andrea Macchia