
HÄNDEL Alcina M. Sicilia, C. Vistoli, C. Piva, A. Gregory, M. Bevan, S. Frigato, F. Salvadori; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Rinaldo Alessandrini regia Pierre Audi scene e costumi Patrick Kinmonth
Roma Teatro Costanzi, 23 marzo 2025
L’Alcina è la seconda opera composta, fra il 1734 e il 1737, da Georg Friedrich Händel per il Covent Garden Theatre di Londra: essa segue Ariodante e precede Atalanta, Arminio, Giustino e Berenice. Di queste tutte fu subito la più amata. Lady Mary Granville-Pendarves, che ne ascoltò una prova a casa dell’autore l’11 aprile 1735, scrisse che Alcina “è così bella che non ho parole per descriverla. Mentre il signor Händel stava suonando la propria parte [al cembalo], non ho potuto far a meno di pensare ch’egli fosse un negromante nel mezzo dei suoi incantesimi”. Il pubblico londinese sarà della stessa opinione e se ne farà ammaliare per ben diciassette rappresentazioni, a partire dal 16 di quello stesso mese. Fu il più grande successo forse di tutta la carriera di Händel. E ad oggi l’opera scritta attorno ai casi della maga ariostesca è fra le più rappresentate (ma non a Roma, invero, ove giungeva per la prima volta). del pur ampio catalogo händeliano. In grazia certo della straordinaria fortuna che dagli anni Cinquanta dello scorso secolo è arrisa alle numerose riprese e incisioni con l ‘Alcina di Joan Sutherland, prima e poi di Cristina Deutekom, di Renée Fleming, di Anja Harteros e Joyce DiDonato; ma anche con i Ruggiero di Teresa Berganza, Vivica Genaux, Franco Fagioli e Philippe Jaroussky.
E in grazia anche di un’eccelsa qualità musicale? Certissimo, anche se non siamo propensi a ritenerla tra le massime del musicista di Halle. Per via d’una certa qual univocità dei sentimenti dati ad una Maga che, pur con melodie di sublime afflato, inanella in fondo un lamento dopo l’altro, piangendo assai la sorte sua e mostrandosi ormai priva – perché vinta dall’amore per Ruggiero? – di quelle entrature con le potenze dell’Ade (vedi la gran scena XIII a chiusura del Secondo Atto) che le avevano consentito d’accatastare eroi e paladini, trasformati in animali, piante e sassi. Le vaghe sembianze musicali del suo canto, insomma, son soavi, soavissime e languide, languidissime: ma alla lunga appena ripetitive. E a ben vedere l’intero Terzo Atto – ad eccezione della leggendaria pièce virtuosa che è l’aria con corni obbligati di Ruggiero “Sta nell’ircana pietrosa tana” – forse è tra le cose se non più deboli, certo più convenzionali dell’Händel della maturità.
Opera di vertice o meno, Alcina è comunque un affar serio da eseguire e mettere in scena. Diremmo – per stavolta cominciando dalla regia – che Pierre Audi è ben riuscito in questo (che comunque è un allestimento nuovo rispetto a quelli di Drottingholm e della Monnaie) a conservare un’eleganza, una misura che nella semplicità degli apparati scenici (non più delle quinte a passepartout concentrico d’un teatro del Settecento), nei delicati costumi (tutto è firmato da Patrick Kinmonth) e nella stilizzata sobrietà delle istanze attoriali, ci ha ricordato (con poco di meno nella fantasia e nell’emozione) alcuni spettacoli del rimpianto Antoine Vitez alla Comédie Française.

Se non ci ha stupiti la qualità della produzione del regista libanese, appena ci ha delusi la direzione di Rinaldo Alessandrini: corretta, precisa, anche onorevole, per carità; ma che avremmo voluta un po’ più audace e varia nei ritmi e nelle dinamiche, un po’ più scintillante nel suono, un po’ più esigente verso i cantanti. Perché in fondo (come la recente Lucrezia Borgia) anche quest’Alcina ci è parsa appartenere alla corrente, dubbiosa stagione del post-belcantismo. Ovverosia di un approccio al repertorio fra il Seicento e il primo Ottocento, forse più generico, forse poco specializzato, forse meno rutilante d’alcuni anni fa. Ad esempio Mariangela Sicilia: cantante esimia per venustà vocale e squisitezza di modi. Con lei e per lei siamo però di fronte ad un’Alcina autenticamente händeliana? O non piuttosto ad una lettura della parte ammirevole per l’espressione patetica e la dovizia delle sfumature, ma non stupefacente nel canto d’agilità e prudente in un virtuosismo che esige slanci e ghirigori e bravura spericolata in quella zona acuta ch’è chez elle sempre appena aspra? Un sospetto di postdatazione stilistica e tecnica, insomma, non riusciamo qui a nasconderlo. Carlo Vistoli, dai tempi del suo Orfeo gluckiano del 2020 all’Opera di Roma, ha irrobustito timbro e volume e ha mantenuto uno stile irreprensibile, sì da delineare un Ruggiero nobile e luminoso. Tuttavia, almeno nella recita cui abbiamo assistito, qualche stanchezza, qualche piccola crepa nella continuità della linea, diverse agilità un po’ faticose (alcuni trilli tutt’altro che perfetti) sono apparse percepibili. Soprattutto quando al confronto si pongano le mirabolanti performances nello stesso ruolo della Genaux o di Fagioli. Se ai due protagonisti s’aggiunge la Morgana vocalmente non certo straordinaria di Mary Bevan (il celebre “Tornami a vagheggiar” non è stato di top class), sia comprenderà come di tal partitura si sia perso gran parte del versante ariostesco – ossia fantastico, stupefacente e sommamente barocco – che dalla sua scintillante vocalità deborda e affascina. Come solo può aver pensato un negromante e incantatore come Händel.
Per quanto loro richiesto, sono state assai meritevoli Caterina Piva come Bradamante e Silvia Frigato come Oberto, anche se questa con qualche caricatura di troppo. Ancor meglio diremo del bravo tenore Anthony Gregory e del bel bass-baryton Francesco Salvadori.
Consolava assai vedere e udire l’entusiasmo d’un pubblico che riempiva il Costanzi in ogni ordine di posti, per un’opera non certo del grande e più corrente repertorio e nell’insieme d’una durata di poco inferiore alla quattro ore. Alleluja al Sassone!
Maurizio Modugno
Foto: Fabrizio Sansoni