DONIZETTI L’elisir d’amore A. Kurzak, J. Osborn, A. Arduini, S. Del Savio, G. Mazzola; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Francesco Lanzillotta regia Ruggero Cappuccio scene Nicola Rubertelli
Opera di Roma, Teatro Costanzi, 15 gennaio 2023
L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti è da sempre un problema. Per la stessa natura al fondo sfuggente di quello che è considerato uno dei capolavori del compositore bergamasco. Ove però non tutto quel che appare è quel che appare. Fuor d’ogni gioco di parole, quando Donizetti si accinge a metter in musica l’imperfettibile libretto che Felice Romani aveva tratto da Le philtre di Scribe, l’apparato dell’opera buffa o giocosa del Sette-Ottocento – con i suoi personaggi, le sue situazioni, i suoi intenti ludici – da tempo mostrava rughe profonde e poco celabili. Già Rossini con Le comte Ory (a non dir del Viaggio a Reims) aveva additato che per tal ambito i linguaggi e le mentalità andavano cambiati nel senso non più della comicità, sia pur dissacrante, ma dell’ironia e dell’ambiguità. Donizetti non è all’oscuro del problema e, nel far sua una commedia popolare come l’Elisir d’amore, non si mostra meno avvertito del nume pesarese. Sì che quel che può sospettarsi essere una lunga variazione sul tema del sabato del villaggio, in realtà è un’operazione tutta incentrata sulla nostalgia. Nostalgia delle campagne bergamasche e delle loro luci ed ombre velate di nebbia lieve; nostalgia dei sentimenti delicati e ansiosi della prima gioventù; nostalgia della stessa opera buffa, qui offerta non come “attuale”, ma come “oggetto della memoria”; ed insieme come ultimo esercizio di déguisement, quasi una rilettura borghese delle pastourelleries aristocratiche dell’ancien régime.
Pochi direttori sono arrivati al cuore del problema, pochi ne hanno inteso la speciale e sottile poesia. Gianandrea Gavazzeni (già dal 1952 alla RAI, poi nel 1967 al Maggio e fino agli ultimi anni) forse più d’ogni altro; ma anche Richard Bonynge (l’edizione Decca), il più attento al ricordo del Rossini francese e ai languori sognanti d’un neo-Luigi XVI ove le primedonne e i primi tenori seri giocano a far i contadini; o all’opposto Thomas Schippers (al Met, con Peters-Bergonzi e Freni-Gedda, accanto a Sereni e Corena), ove malinconie e nostalgie venivano negate in una totale frenesia di vita, ansiosa d’affermare che l’amore pulsa ben vivo nel sangue e nella carne dell’umanità d’ogni tempo.
L’Opera di Roma ripropone oggi L’elisir d’amore con Francesco Lanzillotta sul podio e quella regia di Ruggero Cappuccio già vista nel 2011 e nel 2014. Del maestro romano, che ha proposto la partitura senza tagli, diremo che non ci è parso entrare in nessuna delle prospettive or ora accennate, ma semplicemente optare per una non troppo pensosa vivacità d’insieme, nel primo atto assai fracassona e solo nel secondo appena più analitica e attenta ai dettagli. Forse, comunque e dovunque, intesa a dar riscontro sonoro a quanto visibile in palcoscenico. Ossia, e siamo alla regia, ad una sorta di fiera con acrobati, mimi, saltimbanchi, oggetti e strutture geometriche; e soprattutto, nei lisci fondali, un incalzante succedersi di colori da gelateria, ove hanno dominato il fragola, il limone, il kiwi e più degli altri, quel “gusto puffo” dall’azzurro artificioso assai. Non perdonabili le invasioni di una petulante acrobata in tutta la “Furtiva lagrima” (anche nel bis!) e di un rotolante gruppuscolo di turchi nel delizioso duetto Adina-Dulcamara. Certo, abbiamo visto di peggio, certo non c’erano aggressioni ideologiche alla Graham Vick, i movimenti di coro e cantanti erano ben guidati, ma tanta confusione alla fin fine a chi giova? E quale segno specifico mostra d’essere pensata per L’elisir d’amore e non per il Barbiere di Siviglia o Pagliacci?
Sovveniva pietosamente al tutto un team vocale di prim’ordine. John Osborn non ha esattamente il colore di voce che siamo abituati a sentire per Nemorino, ma canta con un magistero vocale e stilistico di livello astrale, non indulge a nessuno dei vecchi luoghi comuni, è assolutamente personale nel proporre un giovane sì semplice e innamorato, ma conservando una dignità che a tratti sfora nella nobiltà. Ed elargisce una “Furtiva lagrima” qual di rado abbiamo ascoltato per delicatezza d’accenti, soffusa morbidezza di colori, gioco superbo di voci e mezzevoci in una sfera di puro incanto ch’è parsa staccarsi da terra. E che appunto ha provocato un bis, forse ancor più straordinario. Aleksandra Kurzak invero non gli è stata da meno: soprattutto per aver offerto ad Adina un timbro pieno e ambrato, una risonanza di note in tutta la tessitura non possibile ad un soprano leggero, un canto – giustamente — da primadonna che si finge villereccia, ma non per questo rinuncia a cantare da par suo e ad emozionarsi. “Prendi per me sei libero” è stato un momento almeno pari a quello or detto per Osborn, per i legati stupendi, per le filature e le agilità impeccabili, per un’inflessione patetica qui ideale. Ovviamente in sottordine le altre voci: Alessio Arduini è stato un Belcore spesso forzato e dall’emissione non sempre piacevole; Simone Del Savio, pur non avendo un timbro particolarmente attraente, ha cantato più che bene e ha messo in scena un Dulcamara assai simpatico. Bravissima Giulia Mazzola, una Giannetta che potrebbe ben ambire a ruoli più importanti. Applausi per tutti, ma vere ovazioni per Osborn e la Kurzak.
Maurizio Modugno