VERDI I Vespri Siciliani R. Burdenko, M. Rebeka, M. Lippi, S. Lim, A. Gramigni, A. Pellegrini; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, direttore Fabio Luisi regia, scene e costumi Hugo de Ana
Milano, Teatro alla Scala, 21 febbraio 2023
L’allestimento dei Vespri alla Scala ha ribadito la propensione alla medietà culturale di molta regia d’opera moderna, (“Midcult” la chiama Dwight Macdonald), che, ritenendo di divulgare presunti canoni di Alta Cultura, non li fa diventare popolari, ma soltanto li snatura e li banalizza.
Qui Hugo de Ana, ci ammannisce da subito la stracitatissima partita a scacchi tra il Cavaliere e la Morte, da Bergman; non è purtroppo l’unico scampolo di prêt-à-porter culturale di questa messinscena. La quale, poi, mostra subito una incongruenza: gli occupanti francesi del XIII secolo diventano gli Alleati dello sbarco in Sicilia nel 1943: così, gli americani, da liberatori che sono nella nostra memoria collettiva, diventano biechi occupanti, con carri armati e fucili e cannoni come fossero i russi in Ucraina.
Per mettere una toppa alla grossolana contraddizione, il regista, in debito di idee drammaturgiche sensate, ricorre ad un altro cliché: il capo degli “invasori” indossa una divisa che non troppo da lontano ricorda quella di un ufficiale nazista (e chi, se no?). Ma il regista non si cura di questa assurdità logica e storica, basta che il suo Guido di Monforte sembri un cattivo secondo il senso corrente.
Così, di luogo comune in luogo comune, i buoni popolani oppressi “devono” sventolare un drappo rosso, meglio se agitato da un bambino; le donne sfollate “devono” richiamare alla mente le ebree internate nei lager; il tutto inserito in una scenografia dai colori monotonamente grigi e scialbamente illuminata.
Poche ma scollegate le scene d’insieme, tra profughi-emigranti con valigie di cartone, cortei funebri e processioni religiose come “devono” essere in Sicilia, con enormi croci di legno e statue di madonne ingioiellate (ma con pugnale in mano). E così via, in un tripudio di idées reçues attaccate con lo spillo, senza una pur minima visione unificante: l’unica, stravagante novità è che la Morte inopinatamente si mette a ballare la tarantella.
È deprimente che il melodramma verdiano, che fu cultura diffusamente popolare per i nostri nonni e creò tanta parte dell’immaginario collettivo italico, venga ora inscenato attingendo a mediocri stereotipi culturali odierni, per giunta mal masticati e meno ancora digeriti.
Fortunatamente, con i cantanti è andata molto meglio: Marina Rebeka, al suo debutto nel ruolo di Elena, all’inizio non sembra a suo agio nel registro grave, specie nella messa di voce, sovrastata sovente dall’orchestra o dal partner di turno. Ma ciononostante, da subito delinea con pathos e stile il personaggio, e progredisce vocalmente con il procedere della storia, fino a mostrare negli ultimi atti, le sue migliori carte, nelle scene d’insieme come nei momenti solistici, con tono squillante, luminoso e pieno, fraseggio misurato ed elegante, e infine con una meravigliosa resa di “Mercé dilette amiche”, l’aria più attesa dell’opera.
Matteo Lippi (che in questa recita ha sostituito all’ultimo momento Piero Pretti) impressiona come Arrigo, per il canto emozionato e concentrato, il colore caldo e sicuro, le note acuteluminose e precise, il fraseggio accurato.
Roman Burdenko interpreta Monforte con grande naturalezza, nonostante la rigidità posturale imposta dal regista, che gli fa portare per tutto il tempo un soprabito militare appoggiato sulle spalle per rimarcarne l’immagine di spietato Kommander. Dopo l’agnizione, Monforte subisce una trasformazione psicologica da aguzzino a padre amorevole, e il baritono russo sa rimodulare il personaggio con grande sensibilità, con una vocalità dai colori adeguatamente variati e una linea di canto ben bilanciata.
Simon Lim è Giovanni da Procida, il capo dei cospiratori, ed esibisce una voce profonda e sonora, da buon basso verdiano; concentra tutta la drammaticità e la tensione richieste al personaggio nella gradazione degli accenti e dei colori, visto che la gestualità impostagli è estremamente misurata. Tutti di ottimo livello i comprimari, da Andrea Pellegrini (il signore di Bethune) a Adriano Gramigni (Il Conte di Vaudemont), fino a Christian Federici come Roberto e Bryan Avila Martinez nel ruolo di Tebaldo.
Fabio Luisi dirige l’orchestra della Scala con una lettura coinvolta e aderente allo spirito dello spartito, con tempi a volte stringenti, a volte più rilassati, e una sonorità ora roboante, ora sfumata, che mette in risalto tutte le sottigliezze dell’orchestrazione verdiana, in funzione delle situazioni in scena.
Il coro preparato da Alberto Malazzi si conferma eccellente, forse il migliore tra i cori dei teatri lirici, per coesione, armonicità, teatralità: di volta in volta drammatico, gioioso, impetuoso o celebrativo, gioca un ruolo drammaturgico alla pari con gli altri protagonisti.
Lorenzo Fiorito
(Sul numero di MUSICA di marzo la recensione della seconda recita, con Piero Pretti e Luca Micheletti)