MOZART Idomeneo Antonio Poli, Cecilia Molinari, Benedetta Torre, Lenneke Ruiten, Giorgio Misseri, Blagoj Nacoski, Ugo Guagliardo; Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice, direttore Riccardo Minasi regia Matthias Hartmann scene Volker Hintermeier costumi Malte Lübben
Genova, Teatro Carlo Felice, 18 febbraio 2024
Idomeneo trabocca letteralmente dell’entusiasmo di Mozart di poter evadere dalla “prigione” salisburghese, comporre un’opera per una corte prestigiosa come quella di Monaco e per l’orchestra all’epoca migliore al mondo, quella che da Mannheim aveva seguito nel 1778 l’Elettore nella capitale bavarese. Questa esaltazione si traduce in una scrittura orchestrale di un’esuberanza fondamentalmente mai più eguagliata dall’autore; in una concezione del coro per l’epoca inedita, vero personaggio collettivo capace di superare gli esempi haendeliani e gluckiani; in numeri innovativi come il Quartetto, che stabilisce parametri nuovi per i concertati; e in soluzioni musico-drammatiche mirabili, che indagano in profondità i moti dell’animo umano. Come quello straordinario grumo psicologico e teatrale del primo atto in cui il furore di Elettra sembra evocare la tempesta, a cui la dialettica tra “coro vicino” e “coro lontano” infonde una portata universale, lasciando sulle sponde Idomeneo salvo, ma destinato alla solitudine e al rimorso. A frenare l’inventiva mozartiana soltanto un libretto antiquato e mediocre, lo scontro con le necessità pratiche di operare tagli drastici, non sempre risolte al meglio da un compositore già esperto, ma che in fondo compì venticinque anni due giorni prima del debutto, e infine i limiti posti da alcuni primi interpreti inadeguati, che si riverberano inevitabilmente sui relativi personaggi. Fattori evidentemente poi risultati determinanti, tanto che, delle sette opere della maturità, Idomeneo rimane la meno presente sui palcoscenici: meno della Clemenza di Tito, che ebbe miglior fortuna sia subito dopo la morte di Mozart, sia nella riscoperta novecentesca dei titoli mozartiani “seri”, probabilmente a causa di un maggior interesse da parte di registi e direttori artistici per il tema del potere; mentre Idomeneo rimane un dramma di conflitti sentimentali, e teatro di una lotta col destino forse più astratta, per alcuni meno stimolante – anche se proprio l’allestimento che andiamo a commentare dimostra come al suo centro possano essere posti temi assolutamente attuali, come la convivenza tra popoli già belligeranti e i guasti che la guerra inevitabilmente instilla nelle menti di chi l’ha vissuta.
Fatto sta che a Genova l’opera è approdata per la prima volta a ben duecentoquarantatré anni dalla sua creazione: fatto incredibile, a pensarci bene, per quello che resta pur sempre un capolavoro di uno dei massimi protagonisti della storia della musica. Dopo tanta attesa, però, l’opera viene proposta in una versione praticamente integrale, assai più completa di quella che vide la luce a Monaco il 29 gennaio 1781: comprende infatti tutti i numeri musicali, incluse le due arie di Arbace, la versione di quarantaquattro battute dell’intervento di Nettuno e perfino le danze conclusive; oltre a qualche inevitabile taglio nei recitativi secchi, viene omessa in pratica soltanto l’ultima aria del protagonista, “Torna la pace al core”, del resto estranea all’impianto generale dell’opera. E approda al capoluogo genovese in un allestimento non banale, quello concepito da Matthias Hartmann per la Scala di Milano (2019) e oggi acquisito dal Carlo Felice. Il registra sassone ambienta la vicenda in uno scenario (di Volker Hintermeier) spettrale, abitato da un‘enorme testa di toro (per la mitologia Idomeneo era nipote di Minosse), dallo scheletro di una nave, da due enormi ancore insabbiate e da altri elementi che richiamano il mare, con luci che contribuiscono in maniera decisiva all’impatto scenico (ad esempio nel finale del secondo atto). Idomeneo vi appare come un guerriero senza tempo, tormentato da demoni acquatici (reali o immaginari?) e destinato a un inevitabile declino, mentre i prigionieri troiani consentono di mettere in primo piano il tema quanto mai attuale del profugo. Non tutto è forse condivisibile, nella visione assai affollata di Hartmann: non ho apprezzato in particolare alcuni episodi che rischiano il comico involontario, come i ripetuti tentativi del protagonista di uccidere Idamante sull’Aria “Il padre adorato”, o quando, nelle scene conclusive, Idomeneo viene scansato da tutti come un accattone visionario. Ma non si può dire che si tratti di una regia rinunciataria (ho in mente invece la statica ieraticità adottata da Satoshi Miyagi per il Festival di Aix-en-Provence edizione 2022), e soprattutto sa illuminare alcuni nodi e momenti fondamentali dell’opera: come il contrasto, nel finale del primo atto, tra lo sgomento di Idomeneo, che sa di dover sacrificare il figlio, e la folla che gioisce ignara alla prospettiva di preparare una “solenne ecatombe” che immagina ben più inoffensiva (e non per nulla la musica su “andiam” si incaglia sul brivido di un accordo di settima diminuita ad libitum).
Della partitura Riccardo Minasi ha ben colto la sottile inquietudine che la percorre interamente, fornendone una lettura incalzante, caratterizzata già dalle prime battute dell’Ouverture da un rubato al limite della capricciosità; ma indubbiamente molto personale, anche nella concertazione. Tra i protagonisti spicca l’Idomeneo di Antonio Poli, irreprensibile all’appuntamento con la pirotecnica “Fuor del mar”, dove non rinuncia alle sfumature espressive, ma che eccelle appunto soprattutto nel calore con cui ci comunica i tormenti del protagonista, come nel recitativo che precede la grande aria; la sua statura umana emerge pienamente anche nell’autorevole sfida a Nettuno, al termine del secondo atto. Ma altrettanto efficace si dimostra l’Ilia di Benedetta Torre, dotata di timbro e accento adeguati a trasmetterci il dissidio interno con cui il personaggio si presenta nel primo atto, aspetto non sempre riscontrato nei soprani leggeri che in genere impersonano il ruolo: la cantante genovese è poi incantevole in “Se il padre perdei” e in “Zeffiretti lusinghieri”, e intensa nel Duetto con Idamante, già dalle cinque battute di “Larghetto” che lo precedono (“t’amo, t’adoro”). Le è accanto Cecilia Molinari, che infonde a Idamante un’irrequietezza adolescenziale del tutto appropriata, modellando efficacemente, per non fare che un esempio, il memorabile attacco del Quartetto “Andrò ramingo e solo”.
Elettra è invece un personaggio invero contraddittorio: si fatica infatti a mettere insieme l’Erinni del primo e del terzo atto (dove rappresenta uno “strappo” nella palingenesi paragonabile alla Regina della Notte nel Flauto magico) e l’innamorata civettuola, addirittura apportatrice di pace (“Placido e il mar”) del secondo. L’unico fattore di unificazione possibile è quello costituito da una natura completamente agìta dalle sue passioni, che si rasserena solo quando le vede appagate: e Hartmann ha provato a sottolineare questo aspetto mettendo in rilievo il trasporto erotico di Elettra durante “Idol mio, se ritroso”. Proprio in questa corda lirica, tuttavia, Lenneke Ruiten risulta manchevole, a causa di una vocalità assai spigolosa, che a dire il vero non regge neppure le richieste di “D’Oreste, d’Aiace”, mentre risulta abbastanza tagliente per l’Aria di furore del primo atto.
Giorgio Misseri prova con generosità a infonder vita ad Arbace, coronando le cadenze con sovracuti invero estranei alle tessiture tenorili mozartiane; la seconda aria, tuttavia, si conferma un notevole inciampo nel tessuto del terzo atto. Blagoj Nacoski è un Gran Sacerdote eloquente ma timbricamente non molto incisivo; Ugo Guagliardo trae profitto dall’estensione che questa produzione concede alla Voce di Nettuno, e dal suo posizionamento alla balaustra della galleria, infondendovi adeguata autorevolezza. Eccellentissimo il coro genovese, in un’opera in cui il suo ruolo è quanto mai fondamentale; l’orchestra regge quasi sempre l’esposizione a cui la sottopone una concertazione molto attenta all’iridescente scrittura mozartiana; fondamentale il vivacissimo apporto del basso continuo, affidato a Sirio Restani e Antonio Fantinuoli. Lode infine anche ai mimi e ai giovani ballerini, che aderiscono con convinzione alle coreografie un po’ buffe (di Reginaldo Oliveira) delle danze conclusive.
Roberto Brusotti